Fronte Macedone 1916-18
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Esodo dell'esercito serbo
Nicola Morabito

FotoMacedonian front: Albania map
.......​Frattanto gli avvenimenti precipitavano. La lunga lotta estenuante, il vigoroso incalzare degli austro-tedeschi, la mancanza di viveri e delle munizioni avevano ridotto l'esercito serbo in condizioni disperate. Negli ultimi giorni del 1915 avvenne il crollo definitivo: l'esercito che per giorni e giorni aveva bravamente resistito all'urto del nemico, divenne quasi improvvisamente una massa inerte, senza più l'ombra di coesione militare, senza più nessun vincolo di disciplina. Era una folla di 200.000 uomini che si ritirava disordinatamente verso l'Adriatico cacciando avanti i prigionieri austriaci catturati nei giorni migliori. Bisognava continuare a provvedere di viveri questa folla (omissis). Non esistevano più ufficiali, non esistevano più quadri, ogni forza morale era di strutta. Perciò la cosa che più di ogni altra appariva necessaria era quella di dare a questa folla un sentimento di sicurezza e di tranquillità: in seguito si sarebbe pensato a riorganizzarla. Unico mezzo per ottenere ciò era di procedere al suo ritiro dall'Albania.
Ma dove mandare tanta gente?
L'imminenza del pericolo rendeva il problema estremamente angoscioso e la decisione urgentissima. Finalmente, dopo lunghe discussioni, gli Alleati poterono trovare una via d'accordo: fu deciso di trasportare i serbi nell'isola di Corfù che la Francia avrebbe dovuto occupare subito e di impiantarvi una base convenientemente attrezzata e protetta. L'arduo compito del trasporto nonchè della protezione dovette essere affrontato dalle nostre Forze Navali del basso Adriatico..(omissis).
​Il progetto per l'esodo delle truppe fu così concretato: tutti gli invalidi sarebbero stati imbarcati direttamente a San Giovanni di Medua e a Durazzo; in quest'ultima località sarebbero state altresì imbarcate, con piccoli piroscafi, tutte quelle truppe (circa i/4 dell'Esercito Serbo) che già erano accentrate in quei paraggi. Tali truppe avrebbero eseguito a Valona il trasbordo sui grandi piroscafi per compiere la traversata dell'Adriatico o per il proseguimento del viaggio a Corfù che era la loro definitiva destinazione. Il rimanente dell'esercito serbo, nonchè i prigionieri austriaci tenuti dai serbi dovevano raggiungere a piedi Valona...(omissis).

Gli inglesi del resto erano d'accordo con noi, tanto che il 6 gennaio, dal Quartiere Generale Serbo, l'Ammiraglio Troubridge così telegrafava al Comandante della Divisione Navale Inglese dell'Adriatico:
“88 mila serbi hanno avuto ordine di imbarcare Medua e 45 mila Durazzo. L'imbarco è affidato ai Serbi stessi. I mezzi del porto sono nulli. Il porto inadattabile. Questo importante imbarco in prossimità del nemico sarà solo effettuabile se protezione dal mare e contro aeroplani sarà fatta su larga scala. I francesi non mi sembra abbiano considerato la gravità della cosa”.

Se abbiamo insistito su questo punto è perchè ancora oggi di tanto in tanto affiora qua e là l'affermazione che sia stata un'inutile crudeltà dell'Italia esigere che il grosso delle forze serbe facesse una lunga e penosa marcia verso il Sud per raggiungere Valona. Le operazioni di esodo dei profughi e dell'esercito serbo; il trasporto delle varie missioni internazionali, sanitarie e umanitarie; dei Governi; del Corpo Diplomatico e delle Missioni Militari, ebbe inizio fin dal 12 dicembre approfittando dei viaggi di ritorno dei piroscafi che portavano a Medua e a Durazzo i rifornimenti. Ma ragioni di igiene imposero presto di rinunciare a tale ausilio ed il traffico del personale venne distinto da quello dei rifornimenti. Contemporaneamente cominciavano a giungere a Valona, avanguardia colerosa e famelica, le prime colonne di prigionieri. Arrivarono più morti che vivi: erano ombre piuttosto che esseri viventi, scheletri in cui al corpo finito sopravviveva una disperata volontà di salvezza.

“Estenuati dalla fame, dalla corsa di settimane, cacciati avanti dall'esercito serbo in rotta, fra monti e regioni impervie, laceri e seminudi sotto la neve, con piaghe inciprignite, febbricitanti, si erano nutriti di carogne di cavalli e di cani, si erano dissetati in sozze pozzanghere ed avevano il germe del male che poi doveva mietere tante vittime”.

In mezzo a così dolorosa ecatombe rifulse il sentimento di pietà delle nostra gente... Alla scienza sanitaria indissolubilmente si unì lo spirito di sacrificio: nessuna cura fu omessa, (omissis).
Con eroica abnegazione i nostri marinai procedettero all'imbarco di questi miseri avanzi che dovevano essere trasportati all'Asinara. Ma era impossibile in tali condizioni evitare l'insorgere di epidemie; i morti per colera durante la traversata da Valona all'Asinara furono 1283. Intanto lo sgombro sollecito delle masse disordinate che affluivano alla costa e la necessità di assicurare la salvezza delle truppe e dei profughi che man mano seguivano aveva imposto di rafforzare l'occupazione di quella che era la principale base di imbarco: Durazzo. Perciò ad integrare il compito della flotta fu inviato colà il Generale Guerrini con 5000 soldati, unitamente ad un'altra missione sanitaria della Marina; il Comando in Capo dell'Armata provvide alla di-fesa della rada con uno sbarramento di cento mine disposte su due file parallele. Su di esse, come abbiamo visto, andarono a finire durante l'azione del 29 dicembre i due cacciatorpediniere austriaci Lika e Triglav... San Giovanni di Medua invece dal lato di terra poteva considerarsi abbastanza protetta perché i montenegrini tenevano ancora a freno il nemico impedendogli l'accesso al golfo di Drin. Così Durazzo e San Giovanni di Medua furono i luoghi di concentramento dove si compì l'imbarco di gran parte dell'esercito e dei profughi serbi (omissis).

“Erano a centinaia, a migliaia, a decine di migliaia i soldati e i profughi, i prigionieri e le donne che tutti, popolo e governo, povera gente dei campi e ricchi borghesi delle città avevano voluto seguire. Erano tutti insieme confusi in un fantastico mondezzaio di cenciame brulicante di insetti e di scheletri viventi irrigiditi dai crampi dello stomaco vuoto, tutt'insieme attanagliati dal morso della sete e del digiuno, vittime dell'ultima battaglia, la più aspra combattuta per cento giorni e cento notti, a denti stretti, contro la propria carne dolorante di tutti í dolori, contro il pantano e la roccia, contro il colera e la cancrena”.

I più appena riuscivano a raggiungere la riva da dove potevano vedere le navi italiane che rappresentavano la liberazione tanto a lungo sognata nella penosa marcia, si accasciavano in una penosa immobilità, incapaci di qualsiasi movimento, lo sguardo spento senza più forza nemmeno di cercare riparo alle intemperie e alle bombe degli idrovolanti nemici. La nostra Missione Sanitaria provvedeva alle prime cure, alle disinfezioni indispensabili, cercando di isolare alla meglio gli infetti per evitare di propagarsi della dissenteria del tifo e del colera.

“Ma molti, troppi erano i malati e i feriti che invocavano la pietà italiana per il miracolo della risurrezione. Ufficiali medici e marinai infermieri si dedicarono al penoso lavoro a bordo e a terra con sublime spirito di abnegazione, pronti sempre ad ogni richiamo, alle voci disperate dei moribondi, come all'urlo dei troppo avidi di cibo, respirando notte e giorno per mesi interi l'aria della morte che li minacciava da vicino, eroi tra gli eroi per l'umiltà oscura del sacrificio”.

Da Medua a Durazzo le donne, í bambini, i soldati più deboli e malati venivano trasportati a Valona, sulle navi ospedali minori e su piccoli piroscafi; i più validi invece erano avviati a piedi a Valona. Quelli che non resistevano alla fatica del cammino trovavano lungo la via campi di riposo e ospedaletti opportunamente predisposti ed attrezzati. A Valona, quelli che arrivavano per mare, venivano trasbordati direttamente sui piroscafi che li portavano a Corfù e a Biserta; gli altri erano riuniti al Campo d'Arta, superficie di terreno provvisto d'acqua abbondante e dove a poco a poco sorse tutto un vasto accampamento. Il Campo d'Arta organizzato e sorvegliato secondo le migliori norme della scienza sanitaria, diventò ben presto l'asilo temporaneo, il sanatorio dove le truppe serbe superstiti ritrovarono, con le più vigili premure, con la pulizia, col riposo, col vitto conveniente, la salute. E da Arta dove erano giunti come gregge disordinato e tumultuoso ripartivano, completamente rinnovati nel corpo e nello spirito. Rinati alla speranza di una non lontana possibilità di riscossa a battaglioni, a reggimenti sfilavano lungo la spiaggia per recarsi sulle navi d'Italia che aspettavano pronte a salpare verso Corfù.
L'imbarco dei soldati e profughi a Medua cessò il 24 gennaio, quando per la capitolazione del Montenegro, era stata aperta al nemico la via del Golfo di Drin. La Missione Militare Italiana, giusta ordini ricevuti, partì con l'ultimo convoglio che ritirò gli ultimi 24 cannoni, i cariaggi e gli ultimi soldati serbi. Le altre Missioni Militari Alleate avevano lasciato Medua fin dal 20 gennaio. Il 17 febbraio 130.000 uomini erano già stati trasportati a Corfù e verso la fine di febbraio giungevano a Durazzo, che frattanto si veniva sgombrando, gli ultimi scaglioni di serbi. Erano le estreme retroguardie che ad Elbassan avevano opposto al nemico una disperata resistenza e non avevano voluto abbandonare ne i loro cannoni, ne i loro feriti e i malati.

“Fu come l'ultimo fiotto di sangue, il più abbondante e il più malato. Arrivarono allora al campo d'Arta in pochissimi giorni più di 12.000 serbi e altrettanti cavalli e in quel periodo l'assistenza medica divenne più assidua e più gravosa”.

I malati e i feriti più gravi venivano imbarcati sulle navi-ospedale il cui servizio fu in questo periodo incessante. La Marina Italiana aveva cinque grandi navi-ospedale: Kenig-Albert (transatlantico tedesco requisito all'inizio della guerra e trasformato in nave ospedale capace di i 500 cuccette), Re d'Italia, Brasile, Italia, Albaro, nonché due piccole navi-ambulanza: Santa Lucia e Marechiaro. Quest'ultima piena di feriti urtò contro una mina nelle acque di Durazzo ed affondò incendiandosi. 120 erano i soldati serbi feriti degenti in cuccette e tutti, grazie all'abnegazione dei nostri marinai furono salvati mentre il comandante e la maggior parte dell'equipaggio perirono vittime dell'esplosione e dell'incendio. 

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