LETTERE E SCRITTI DI CADUTI PER LA PATRIA (M. De Benedetti 1926)
Presso la R. Università degli Studi di Roma si costituito fin dal 1918 un Comitato per la raccolta e la pubblicazione di Lettere e Scritti del Caduti per Patria, specie degli Studenti, col proposito di salvare, almeno in minima parte, l’eredità spirituale del nostri Morti. S. E. il Ministro della Pubblica Istruzione fece, a suo tempo, appello agli Istituti scolastici perché concorressero al nobile intento richiedendo alle famiglie del loro Alunni caduti, copia delle lettere inviate dal campo o d'altri scritti riguardanti la guerra. Coi documenti ricevuti e col materiale raccolto dall' Istituto Storiografico di Mobilitazione (già, dipendente dal Ministero della Guerra), d'accordo col quale il Comitato svolse l’opera sua, è stato compilato questo volume, che contiene scritti, scelti fra i più degni per altezza di pensiero e di sentimento, di più che centosessanta Caduti. L’utile sarà, devoluto all' Opera degli Orfani dei Militari morti in guerra per l’istituzione di borse di studio. Tutto il lavoro di raccolta e di compilazione e stato eseguito a titolo completamente gratuito.
PER L’ISTITUTO STORIOGRAFICO IL DIRETTORE GIOVANNI BORELLI
PER IL COMITATO UNIVERSITARIO S. E. PROF. PIETRO FEDELE della R. Università di Roma. Ministro della Pubblica Istruzione
PROF. VITTORIO ROSSI della R. Università di Roma.
PROF. CARLO SEGRE' Docente nella R. Università di Roma. PROF. GIULIO TENTORI Preside del R. Liceo Torquato Tasso di Roma.
SEGRETARIO COMPILATORE MICHELE DE BENEDETTI (Già Capitano Combattente)
“Ma in realtà nulla di quello che è scritto o detto dagli altri, può bastare nessuna parola, per quanto profonda sarei più vera di quella scritta da noi. Ed io vorrei gridare tutto il grande, immenso sacrificio che io compirei se dovessi morire, non lo rimpiangerei, no! Ho voluto esser qui e se non ci fossi, verrei a gettarmi nella lotta per dare maggiore valore morale alla mia vita. Ma non per questo sento meno che se dovessi lasciarti sola il mio cuore sarebbe nell'ultimo istante pieno d'angoscia”. Queste parole che uno dei Caduti, Elia Ernesto Begey, scriveva alla moglie e che suonano come un supremo grido di passione gettato nel silenzio della notte che si è richiusa dietro di lui per l’eternità, potrebbero essere la degna epigrafe al volume. Eco vibrante di dolore, di fede, di amore, esse ci dicono con, la necessita dell'esprimersi, la coscienza e il rammarico e perciò la sublime bellezza del sacrificio. “Questa è la santità della guerra” scrive a Ferruccio Salvioni al fratello Enrico, ambedue immolatisi per la patria in perfetta comunione d'anime: “questa è la santità della guerra, nella quale gli ignoranti vedono barbarie, e questo è in essa la maggior fonte di bene; che in essa, oggi, milioni di uomini faticano, soffrono e si fanno uccidere e uccidono senz’odio; ma per amore e per dovere, per amore della Patria”. Di tanto amore e di tanto dovere è la consacrazione questa raccolta di circa cinquecento scritti di più che centosessanta caduti, scelti fra qualche migliaio che ho avuto a disposizione. E già in tali limiti che appaiono, ma non sono ristretti, la scelta è stata difficile, sia dinnanzi alle pagine dei Morti, per le quali sembrava ingiusto ed era doloroso stabilire un merito, che per l’attesa delle famiglie che hanno inviato i documenti e che hanno ritenuto, con tutta la sincerità dei loro cuori spasimanti che nessuna parola fosse più degna di essere pubblicata e tramandata che quella degli eroici Cari. E ancor più vorrei rammaricarmi e quasi chiedere perdono del torto che può ritenersi fatto a tutti gli altri delle cui lettere non ho avuto la possibilità di nulla ottenere e leggere o alla memoria dei tanti che furono schivi, perfino disdegnosi del rivelarsi, come pure ebbero potuto, o tremarono di angosciare le famiglia lasciate o si sentirono più forti nei loro chiuso e muto coraggio. Né si può non volgere, infine, il pensiero alle schiere senza numero dei più umili, degli oscuri che non sapevano vergare e nemmeno sempre se non rozze e quasi inarticolate parole sulle cartoline in franchigia e dentro il cuore, come semi non sbocciati, serravano il tesoro inespresso ed inesprimibile degli stessi affetti e degli stessi pensieri. E certo sono eguali, egualmente sacri alla nostra memoria tutti i Morti per la Patria, tutti coloro che hanno gettato i loro beni con l'unico bene, la vita, ad un sogno, ad un amore, donata l’unica realtà, spento il dolce sole con gli astri per la luce lontana di un'idea. Ma non bisogna dimenticare che se alla guerra la morte sembra segni a caso le vittime, essa predilige i più generosi e i più arditi; se l’ombra pare si abbatta di sorpresa e violenta trascini, molti l'hanno attesa col cuore in silenzio e cercata con lo sguardo sereno. Né era molto difficile trovare la morte alla guerra. Ma vi era una cosa tanto difficile da apparire sublime: pensare alla morte, «contemplare la morte» come ha detto un poeta, accoglierla, invitarla, quando si era Cosi giovani. Ebbene quanti non hanno osato fissarla in volto sin dal primo istante, quanti non sono ascesi, perfino, verso di essa portando sulle mani tese che non tremavano la fiamma del proprio martirio, ed ogni passo hanno cantato e segnato di alti pensieri e di ardenti palpiti e li hanno offerti serenamente in dono a quelli che amavano? Quanti prima del sacrifizio supremo, tutti gli altri sacrifizi, tutte le altre miserie della guerra, la miseria fisica, la più atroce, del fango, del freddo, della stanchezza, dell'insonnia, del luridume, del sangue, non hanno vissuto, non hanno sopportato non solo col corpo, ma col pensiero cosciente e non hanno come purificata, isolata ed elevata sull'altare della propria anima e fatta grande e divina nella sua essenza come nel suo divenire, per la nuova alba di gloria che avrebbe irradiato gli orizzonti della Patria, per la lunga dolce ombra di pace che dalla loro Croce avrebbe abbracciato l'umanità? Ciascun uomo, io credo, ha in sé germi di virtù che egli stesso ignora e la maggior parte degli uomini li portano con loro ancora chiusi nella tomba perché mai li ha colpiti il raggio che avrebbe avuto il potere di schiuderli. Ma per molti la guerra era stata la rivelazione. Il fuoco della fede e la tempra della disciplina e la morte onnipresente ha aiutato a distruggere le scorie, a disperdere le nebbie e i torpori, maturato più rapidamente gli ingegni, acceso i cuori, afforzato caratteri, ingagliardito le volontà, sollevato i cieli, spalancato gli orizzonti. Più d'uno è nato alla guerra, come si nasce all'amore. I tumulti, le ebbrezze, i languori della giovinezza, le aspirazioni, le angosce della prima maturità, hanno trovato nuovi palpiti per la nuova Passione. Mai quanto nell'angosciosa lontananza le anime si sono agitate su se stesse come fiamme a tutti i soffi, gettando bagliori ed ombre, scoprendo cime ed abissi. Mai si è così intensamente ascoltato nella sofferenza e nell'attesa il ritmo prodigioso della vita. E si è sentita più dolce la comunione con la natura, e il cuore delle cose fraterno al nostro cuore. Mai si è attinto più profondamente col pensiero all'universo degli eventi e delle cause, mai forzato con ansia più ardente inviolabile enigma. Mai si è creduto così ineluttabile il destino, mai più forte la volontà mai più certa la giustizia. Né la vita era mai apparsa più miserevole cosa né si era immaginata più felice e più grande. Sul folle uragano di distruzione s’incurvava li cielo eterno, dalla stretta della terribile realtà l’anima balzava fremente incontro all'infinito. Per più di un anno, dopo l'armistizio, sono rimasto in comunione continua con i Loro spiriti. Ho visto aprirsi dinnanzi ai miei occhi orizzonti di luoghi, cieli di anime, nidi, paesi, persone, cuori. Mi è parso, talvolta, di compiere perfino una profanazione, di violare le soglie di case sconosciute, dove aleggiassero ancora alterni il timore e la speranza, di sorprendere le parole ed i pensieri e le angosce di estranei, di assistere, non visto, al loro dramma, allo stesso dramma che si scatenava improvviso anche quando ero temuto ed atteso... Ogni lacrima come una goccia di pioggia che cada in uno specchio d'acqua apriva cerchi di dolore sempre più vasti ed cerchi si confondevano con infiniti altri cerchi e la pioggia terribile non finiva mai... Ma per la prima volta io sentivo anche di accostarmi umanità, vera e profonda. E nulla era più tristemente e più dolcemente suggestivo insieme, che penetrare in quelle vite intime, sentire improvviso il battere d'ali dell'anima e seguire le battaglie tragiche del sentimento di sconosciuti che cominciavo ad amare così a poco a poco, sino a farmi lentamente una schiera di amici muti ed immobili nella lontananza del passato e della morte, di amici che non avevo incontrato mai. Ma leggendo le loro lettere mi accorgevo di non avere conosciuto in vita neppure i fratelli, quelli stessi che ci erano stati e che avevamo creduto di sentire più vicini e più intimi. Perfino nella comunione quotidiana della vita di trincea, del dovere, dei pericolo, del sacrifizio, gli animi non si accostavano. Non vi è in fisica coesione di molecole che non siano separate da spazi o per la loro vastità o per la loro piccolezza egualmente grandi. Ed i cuori sono parchi di parole. Il pudore dei cuori è forse il solo pudore che realmente esista. Si scherzava, si rideva, si piangeva anche talvolta, tacitamente e con gli occhi asciutti, si parlava, si parlava perché era necessario parlare e forse solo il silenzio ci legava, veramente a quegli estranei di ieri, cui non avremmo gettato uno sguardo incontrandoli per via e che da un'ora all'altra diventavano compagni per la vita e per la morte, dividevano con noi la mensa e il giaciglio, come avrebbero potuto dividere dopo un momento la fossa, che ci comandavano o ci obbedivano per la sola virtù della Legge che tutti ci governava, per il solo ardore della fiamma che tutti ci bruciava. E tuttavia noi non li conoscevamo chi erano, donde venivano, che cosa pensavano, che cosa sentivano? Chiusi, od espansivi, spensierati o tristi noi non li conoscevamo. Come non potevamo scorgere l'ombra del destino che li accompagnava, così non potevamo scorgere la luce dello spirito che era dentro di loro. Una maschera scherzevole, spesso ironica, celava volti, parole indifferenti e beffarde soffocavano i battiti dei cuori.
Scrive in una sua lettera un Caduto, parlando di un compagno ucciso: “Ricevo l'incarico di cercare l'indirizzo dell'amico e vedere a chi sia opportuno mandare il triste annunzio. Ci siamo accorti che, pur essendogli amici, ignoravamo tutto di lui. Si scherzava molto tra noi; ognuno parlava anche della propria vita così di sfuggita, ma erano solo cose esteriori; esiste sempre una istintiva ritrosia a parlare di ciò che ci è intimamente più caro. Sfoglio la corrispondenza, ma sono intimidito. Non oso penetrare in quella piccola vita ignota. L'amico mi appare subito diverso da quello che conoscevo. Lo sapevo buono, meglio, intuivo la profonda bontà sua, ma non sapevo quanto essa divenisse vita e luce per coloro ch'egli amava”. E così solo quando bisognava pur fare prorompere la piena dell'anima, allora ciascuno si chinava a scrivere alle persone care e mondi sconosciuti si aprivano nel firmamento dell’universo. Sul fondo di tutte le lettere, gli orizzonti della guerra, le montagne, le Alpi, l’Isonzo di Smeraldo, il Carso infernale, il mare di Trieste, che Si alternano e si intrecciano con le immagini, dei paesaggio famigliare che sorgono dal, passalo ancora così vicino: il chiuso piccolo giardino della casa vasto come un mondo, e la, spiaggia dorata di sole e il rettangolo di cielo translucido visto dalla finestra dove passano stridendo e giuocando le rondini, la città, le vie, più popolose e misteriose mentre l’ombra della notte, vi si aduna e le avvolge. E nella passione della lontananza quelle immagini appariscono ancora più dolci e desiose: ricordo la domanda, assillante, quasi angosciosa, che, per tre lettere di seguito, un giovanetto ufficiale, seppellito in una trincea di neve, ripete alla famiglia: “è fiorito il glicine dinnanzi alla mia finestra, è fiorito il glicine dinnanzi alla mia finestra?“ E quella macchia di grappoli violetti fissa negli occhi, quel barbaglio lontano di fiori era per lui tutta la luce, tutta la gioia, tutto il profumo della primavera. Ma come nei grandi quadri cinquecenteschi, sugli orizzonti che sembra si facciano piccoli e lontani, le figure umane occupano ogni spazio. E profilate così sul cielo appaiono ancora più alte e più grandi. Madri, padri, mogli, figli, sorelle, fratelli, tutte le pure persone della famiglia sono rievocate con una tale potenza di rilievo e con una tale profondità di passione da far tremare. La madre è innanzi a tutti. La maggior parte delle lettere è indirizzata alla madre, parla della madre; se ne potrebbero fare volumi e volumi, egualmente belli per l’altezza dell'amore e per la forza della devozione.
Ve ne ha uno, che è stato pubblicato, e che contiene un centinaio di lettere di un giovane Caduto di Perugia, Angelo Cesarini, tutte alla madre, alla quale dà del lei e cui parla con un linguaggio mistico come ad una santa, lettere così profondamente toccanti, che sembrano scritte in una atmosfera spirituale a noi ignota. All'alba, al tramonto, al meriggio, ogni volta che egli esce con la mente dalla fossa alla vita, è sua madre che gli viene incontro e “i ricordi si susseguono ai ricordi”, egli scrive: “le immagini alle immagini, i desideri ai desideri, e in questo avvicendarsi di sensazioni diverse, più forte, temprato, imperioso ne esce quel sentimento d'amore che mi lega a Lei e più cieca è la mia devozione”.
“Mamma sei unica al mondo che mi fai essere forte” grida un altro umbro, Tommaso Goffredi di Spoleto, Mamma, due sillabe che scoccano come un bacio scrive un altro. Mamma, mamma è la sola parola che aleggia in tutte le bocche nei momenti più terribili del combattimento; afferma un altro ancora: “Per Te ora, o Mammina” dice Emilio Bongiovanni, dopo la ritirata sul Piave, “voglio vivere, voglio combattere, voglio vincere. Per ridarti la tua casa che è il tuo regno, per vederti ridere ancora di gioia come da tanto tempo non ridi, le fatiche, i disagi, i pericoli, tutto dimentico oggi. Fra me e il nemico v'è la visione di mia madre, sola su una strada, carica e affranta senza casa... e non avrò pietà”.
“Povera mamma, non parlo mai di lei in queste note..” ricorda Renato Serra - Ma come è possibile? E' nel cuore, nel respiro, nel vivere: così naturalmente e continuamente che non si sente bisogno di parlarne. Giosuè Borsi le rivolge parole che suonano come una preghiera: “Perdonami anche di non avere mai abbastanza riconosciuto, adorato, cercato di ricompensare, la nobiltà, impareggiabile del tuo animo, del tuo cuore immenso, sublime madre mia veramente perfetta ed esemplare, a cui debbo tutto quanto sono e quanto ho fatto al mondo di meno male”. Vi erano le madri troppo amorose, vi erano le madri troppo timorose, vi erano le madri forti e le madri austere “In tutto quello che fai segui il consiglio di tua madre” è lo scritto trovato nel portafoglio di un caduto. Sono forse esse tutte eroine, tutte donne sublimi, tutte anche donne semplicemente pure ed oneste, nel senso che l'uso dà alla parola? No, sono le donne comuni, con tutte le loro virtù e tutte le loro colpe, ma i figli non le esaminano, i figli non le giudicano, i figli non le vedono che trasfigurate dall'amore ed esse si spogliano di quanto possono avere di caduco e di cattivo per trasumanarsi, per santificarsi nella madre. Ma che dire delle mogli verso le quali si rivelano tesori di affetti e di poesia, non dirò ignorati, ma così spesso misconosciuti od irrisi?
Ricordo il brano di una lettera di un capitano di complemento Guido Ruggero, perchè appare quasi la strofa di un piccolo poema: “Ho passato tre o quattro notti proprio meravigliose, sulla riva dell'Isonzo. Notti lunari, primaverili, indimenticabili. Ieri ho cominciato a riposare alle cinque e mezza del mattino: ho perduta l'ultima mezz'ora a godermi il canto di un usignolo che m'era venuto a cantarmi presso la mia baracca, la poesia della vita e l'amor tuo. I suoi gorgheggi melodiosi, nella vallata che si destava tutta rorida di rugiada alle prime luci del giorno, trovavano una dolcissima rispondenza nel mio cuore. Pensavo a te che m'ami e che io perdutamente amo, pensavo alla nostra adorata creatura dormiente il sonno dell'innocenza, pensavo alla nostra felicità che, anche se siamo lontani e divisi dalla inesorabile barriera della guerra, vive, per virtù nostra, piena e bella nella poesia dei ricordi e delle speranze, e sentivo vibrare in me tutte le corde”
Un altro solleva il suo amore e la sua anima presaga ad altezze morali maggiori: “Guardami dunque negli occhi mia dolce, mia forte compagna: tu non sapresti sempre, davanti a qualunque avvenimento vivere fieramente per la vita che porti? Amala, amala, la tua creatura amami in lei per tutto quello che' il mio spirito ora e sempre oltre ogni evento può recarti ad aiuto, a maggior incitamento per farla più bella, più forte, più degna: amala per tutta la gioia che dalla nostra anima comune volge verso la più grande idea di vita”.
Ed è un soldato di fanteria, un magnifico figlio di Romagna, “Romagna la forte”, Pietro Magnani che scrive con mirabile semplicità a sua moglie: “Se io non dovessi più ritornare raccomando i miei figli, voglio che ad essi sia insegnato di voler bene a tutto il mondo, di rispettare gli altri, e specialmente i vecchi come ho fatto sempre io. A te dunque che sei la madre raccomando caldamente che i miei figli siano allevati bene. — Se mi è dato di trovare la morte su questi campi di battaglia, parla spesso a loro di me, di a loro che suo padre li ha amati tanto e che se sì presto li ha abbandonati, è solo per servire la patria”.
E ve ne sono delle più umili e toccanti ancora: fra le tante una lettera di un intagliatore in legno di Prato, Nalo Fioravanti, una lettera alla moglie che non è se non una ingenua rievocazione di tutta la vita famigliare e che conclude con queste parole che non si leggono senza che la, gola vi si serri: “Scrivi subito, e a lungo... Che io possa leggere un'ora intera in mezzo ad un campo, e piangere di gioia”... Nulla, dalle lettere dei Morti, appare istituzione più alta, più santa, più forte di quella della famiglia. Dissidi, odi, adulteri, separazioni, possono essere gli episodi che saltano comunemente ai nostri occhi perchè si distaccano dal quadro, ma la famiglia italiana, salda e pura nelle sue più profonde radici, è il baluardo infrangibile di ogni moralità e di ogni civiltà.
“E certo” scriveva un altro che non doveva tornare, Carlo Saint Cyr “il più bel giorno della mia vita sarà quello in cui mi sarà dato passare ancora le soglie della mia vecchia casa se il mio cuore non vacillerà. E piangerò allora un pianto lungo di gioia avvolgente ed ineffabile e si vedrà l’ufficiale che dinnanzi al nemico non ha battuto ciglio, tremare di fronte ai volti amati”. E tuttavia, che cos'erano gli orizzonti della casa e della vita famigliare in confronto della felicità dei grandi cieli della Patria? Tutti se ne distaccano per la più grande amata, l’Italia, abbandonano senza pianto la stessa madre per la più grande madre, l’Italia.
E il pensiero della Patria si unisce a quello della famiglia, a quello di tutte le cose care e i sentimenti si fondono e si completano in amorosa armoniosa: “E mai come oggi”, scrive Romano Orsi “ho tanto amato, mai forse come oggi ho avuto l'anima così pura e libera da ogni altro sentimento estraneo a quello che mi è realmente caro nella vita: la Patria, voi e la casa”.
E un altro, Giancarlo Conti: “ho avuto nella mia vita tre grandi amori, l'uno e l'altro compenetrati e alimentati da un unico affetto e di una sola fiamma, voi, la Patria, la famiglia”.
Ed Angelo Silvio Novaro che partiva per andare in linea: “Io parto sereno e contento, anzi vi dirò: le poche ore da che è giunto l'ordine di partenza e questo breve tempo di stretta effusione con voi, sono fra i momenti più belli della mia vita — Era gioia o dolore? non so. Non esiste una differenza fra l'una e l'altra, ma io mi sentivo migliore” E dopo due giorni moriva. Le sofferenze fisiche e morali pareva non togliessero, bensì dessero forza all' animo.
E dalla straziante vita di trincea, nascevano, mostruosi fiori, strane e sublimi parole: serenità, gioia, bellezza, felicità. Respiro la pienezza della felicità» ripete per alcune lettere di seguito Vincenzo Franeavilla. E quando la famiglia lascia finalmente accorrere alla fronte Amerigo Rotellini, il pallido giovane ventenne che la madre ha troppo amato e che ha avuto il tempo, prima di morire, di gettare un grido che resterà, armonizzando, sintetizzando, cattolico spiritualista, il pensiero e azione, come Mazzini, in una massima del Goethe: “senza transazioni, nell'integrità, nella plenitudine, nella bellezza”, egli scrive Non avevo bisogno che dì una cosa: di venire qua dove io sono. Ricomincio a provare che cosa significa la parola piacere. Era tanto tempo oramai che non ero più abituato a godere della leggerezza d'una mattina, che primi tempi non mi riusciva quasi possibile. Ho dovuto riabituarmi, a poco a poco con una specie di gradevole stupore interno. Sento di rinascere alla vita, alla vera vita”.
C'è chi giunge, perfino, come il capitano Renato Giovannetti, caduto alla Bainsizza, a parlare in una sua lettera dalla trincea del “sognato paradiso”. Ed Edoardo Magrelli, dalla stessa coscienza della sua miseria fisica, assurge al più alto rapimento mistico: “Sono qui a dormire sul freddo della terra, fra pareti umide di terra e ho la carne ruvida e sporca e i capelli incolti e la divisa lacera: e sopra la testa poche tavole sconnesse aperte al cielo e alla morte e mangio sulle mie ginocchia e una candela infilata in un fiasco è la mia lampada e una feritoia il mio balcone. E all'imbrunire comincia la triste bisogna. Si esce dalla trincea, cauti, silenziosi, curvi, perché non si profili l'ombra. E non c'è un sorriso, non c’è una carezza per queste giovinezze che si, battono qui. E all’alba mi vado a giacere quando il cannone tuona e il cannone mi desta. Sulla mia pelle sporca passa il brivido della mia fede e il sorriso delle stelle entra per i miei balconi e io mi affondo nel cielo e abbraccio i monti e lo spazio e questo gioco dinnanzi alla morte mi dà la vertigine dell'esaltazione”. E sono i più allegri che sentono più vivo il loro dovere “Se si dovesse partire domattina, io sarei più che beato. La giovinezza è passata, i venti anni sono trascorsi! (scriveva uno che ne aveva ventidue!) la spensieratezza ed i pensieri allegri... A volte ritornano lunghi sprazzi di matterie e vien voglia di fare il ragazzo. Ma è il momento del proprio dovere: pare sia giunto proprio il momento di farlo”.
Il “momento é vicino” scrive similmente Giovanni Alberto Calvelli “ed io spero di non deludervi Oggi non sento rimpianti di gioventù, di vita spensierata, di sorrisi e dì carezze. Sereno, tranquillo, Convinto di combattere per una causa santa e grande, mi accingo ad affrontare il destino, sentendomi orgoglioso e lieto di offrire il mio sangue alla Patria... “. Chi inspirava ai giovani Eroi questa meravigliosa virtù di superamento? Virtù di superamento che faceva davvero sola realtà fondamentale della vita, fino al sacrifizio della vita stessa, “quella che oggi è passione” come sì esprimeva, rivolgendosi al fratello, il maggiore degli altri dire eroici fratelli Besozzi: “quella che domani sarà fede, quella che taluni, forse diranno ridendo poesia, ma che è e, sarà sempre la cosa più bella, più pura, più confortevole, più divina che possa essere in un uomo? Poesia, poesia, che cosa se non divina poesia sono queste parole di un morituro? Non temo nulla oggi. La morte, è quasi indifferente come la vita e oggi viviamo troppo intensamente per pensare a noi! Ci sono le Alpi che attendono e che chiamano con tanta sonorità, di voci lontane... “ Che se vi erano coloro che avevano il conforto di credere ad una vita al di là, molti altri, rigogliosi della loro giovinezza ventenne, non si erano mai indugiati a cercare dietro le stelle una ragione per vivere od una speranza per morire.
E il dono sereno della vita diventa così ancora più generoso. Per tutte le dolci cose che lasciavano non vi è che la coscienza del dovere compiuto: “credo nella Patria” scrive Alberto Caroncini “e muoio per ricordare che alla Patria la vita del cittadino è dovuta, senza ragione, senza speranza, per il compimento di un rito civico immortale, per l'edificazione degli italiani che saranno questo e non altro”.
E Mario Psichi, anch'egli soldato di fanteria “vado incontro alla morte, senza nulla sapere e sperando ch'ella mi insegnerà. Non accetto altro maestro”.
Francesco Saladini, già ferito a morte, ha il coraggio dì affermare: “Non credo, Non vedo oltre la terra e neppure l'agonia mi farà mentire. Se Dio esiste e riserva un premio a chi vive e muore con onestà, questo premio io l'avrò non per speranza di premio, io ho fatto il mio dovere sempre, ovunque... “.
Il dovere «padrone severo ed inesorabile», come lo personifica Ernesto Grossi, che già gravemente ferito, dall' ospedale vuole riaccorrere in trincea, dove andrà e dove troverà la morte padrone severo ed inesorabile: “che mi legge nell'anima ogni sentimento, nel cervello ogni pensiero. Esso prescinde da ogni, affetto, da ogni interesse, da ogni tornaconto vive di forza propria ed è immutabile attraverso gli eventi variabili. E' il dovere che ci fa giustificare la sventura, il dolore e il capriccio della morte. Pure esso è fonte di sana gioia. Che cosa sono i piaceri che si traggono dal mondo esteriore? Fantasimi vuoti di sostanza, combinazioni di fatti evanescenti come le combinazioni di luce riflessa dalle faccette di un diamante. Brillano per un istante solo e poi si spengono per sempre. Non dura a lungo la felicità che deriva da cause esterne che non possiamo dominare. La vita è continua distruzione, perchè è continua creazione. Io sono contento di me “.
E i più, come lui, al momento del trapasso pensano come ad un evento sereno e glorioso. Mario Tancredi Rossi, pure profondamente credente, scriveva queste semplici e magnifiche parole: “Sappiate che io sarò morto con negli occhi la visione d'Italia e di te, Madre sovra ogni altra pura e di te, Padre mirabile e forte, e di voi, sorelle dolci e di te fratello faticato pur tu dalla vita. Sappiate che io sarò morto sereno e felice, con negli, occhi la gloria, sotto l'azzurro cielo d' Italia, sull'alto delle montagne che amai sopra tutte le cose belle che il inondo mostrò”.
“Ho pur sempre presente la morte e l'eternità scrive Enrico Edge e tuttavia mi sento felice in pace e senza timori, benchè la morte potrebbe sorprendermi da un momento all'altro. Mai mi sono sentito così tranquillo”. Francesco Sabatino: “Bisogna essere sempre con piedi nel fango e qui Ce né molto e con la testa nel cielo bisogna che la grande idea che ci ha fatto brandire le armi ci sia sempre davanti gli occhi presente sempre, perchè è quella che ci illumina che ci astiene che ci fa vincere, e che ci fa anche morire volentieri”.
E Cesare Mombello indirizzava ai colleghi studenti questo testamento goliardico: “Se avrò l'onore di morire per la Patria ricordate sempre il vostro amico Cesare, Io muoio felice, sicuro, che sul mio corpo saranno sparsi fiori. Sappiate che in venti anni (che non ho ancora compiuti) non ho mai pianto. Per me la vita fu come una gioia continua, un piacere infinito. L'ultima gioia fu quella di morire per la Patria».
E vi sono stati perfino fanciulli, come Roberto, Sarfatti che nato nel 1900, morto nei 1917 si arruolava volontario a quindici anni fra gli alpini e così scriveva solennemente al padre: “Ricordati, ricordati di Socrate e rileggi ciò che egli diceva prima di morire che cosa ti sembra meglio, la morte incontrata a quindici anni, combattendo per l’Ideale a cui ci si abbandona come alle braccia di arridente sposa, oppure da vecchi in un letto e senza ricordarsi d'aver fatto niente di, glorioso?” Parole di un bimbo che avrebbero potuto suonare quale ingenua retorica o quale reminiscenza letteraria, se questo bimbo non fosse caduto come aveva promesso, combattendo sull'Altipiano di Asiago e tanto grandi fossero stati il suo valore e il suo fervore di soldato semplice, da decretare alla sua memoria la medaglia d'oro.
“Se cadrò” quasi invoca Mario Fusati, studente di liceo: “Papà, Sina, angelo mio; amici e parenti che mi amate non abbiate lagrime per me, io la morte, la bella morte l'ho amata. Non pensatemi col petto squarciato nell'ultimo spasimo, ma dal fervore d'un impeto eroico svanire in una beatitudine suprema... “.
Enzo Valentini alla madre: “Cerca, se puoi di non piangermi molto. Pensa che, se anche non torno, non per questo muoio. Sono stato creato per la gioia e attraverso la gioia, che è in fondo ad ogni dolore, alla gioia eterna debbo tornare”. “Tutto mi é dunque propizio” scrive un altro con parole che suonano in noi come un meraviglioso canto di Anima “tutto mi arride per fare una morte fausta e bella: il tempo, il luogo, la stagione, l'occasione, l'età. Non potrei meglio coronare la mia vita, sento tutta la compiacenza di farne un uso buono e generoso. Perciò non voglio che tu pianga, mamma, perchè in verità offenderesti la mia sorte.., non è morte questa mai; é vita, è immortalità”. Non piangete, non piangete tutti chiedono una stessa cosa e un'altra ancora non dimenticatemi. Sembra che la tenacità della vita abbia questo solo rifugio supremo il ricordo dei viventi.
“Per me una cosa sola chiedo” scrive al fratello un mese prima di trovare la morte sul campo a 19 anni il volontario don Giuseppe Giustiniani Bandini, di cui rivedo ancora sempre l'immagine di pensieroso adolescente: “Per me una cosa sola chiedo che non mi dimentichiate”.
E Luciano Coen quasi si attarda a cercare, a contemplare come la sua esistenza continuerà: “Non mi dispiace di morire, non credo che sopravviverò come coscienza, perchè nel morire cesserò di pensare. Non avrò più l’idea delle cose e non le giudicherò. Ma sopravviverò senza saperlo. Resterà il segno della mia vita nelle cose che ho toccate e la mia immagine nell'anima dì quelli che mi hanno conosciuto”.
Altri, come Giovanni Galeotti, vede, nel ricordo dei suoi, perpetuarsi quasi la sua stessa vita quotidiana e scrive alla mamma, prima di partire per un'impresa pericolosissima che gli costò infatti la vita: “Non piangere troppo sulla mia morte, che in spirito sarò sempre con te... Tanti luoghi, specialmente i nostri posti, ti ricordino dì me, e vi sarò sempre presente — Ancora ti accompagno in chiesa, ancora rido e scherzo con i miei fratelli, ancora faccio delle gite con voi — Al Palazzo di Piero nelle preghiere della sera; a Roma nelle lunghe serate invernali, come quando eravamo raccolti e felici: e ciò sempre fino all'ultimo giorno della tua vita...”.
E dinnanzi all'estrema separazione: “Parto per l'avanzata scrive Edgardo Magrelli sono immutato di fede, di coraggio, di entusiasmo. Solo un pensiero la, mamma ed un altro l'umanità, la vittoria un sogno. Tutta la mia Romagna è sepolta qui - la mia giovinezza, con i suoi sogni, con, i suoi desideri, con le sue follie cadrà in questa tomba”. “Con la fede nell'anima scrive un altro, dalla trincea che lascerò fra breve, nell'attesa dei crepitio delle moschettate, con voi tutti nei cuore, negli occhi, nel pensiero, io vado verso il destino che mi attende”.
E in una magnifica sintesi Luigi Filippo Gerbino sente di salvare, mentre la dona, la propria vita, affermando: “La morte nel pieno dell'azione è forse non altro se non un altro modo di vivere...! “La stessa battaglia diventa una festa e assume il valore di un rito.
Domenico Gibellini di Brescia, morto in seguito a ferita, così ricorda in un quadro meraviglioso nella semplicità delle sue linee, la vigilia della battaglia che gli doveva essere fatale: “La sera dell'assalto generale fu memorabile. Tutti ci facemmo la barba, ci lucidammo le scarpe, si cantò sotto voce gli inni nazionali, si ballò ricevemmo l'assoluzione dal cappellano dritto sulla trincea, ci baciammo tutti commossi”. L' assalto diventa anch'esso qualche cosa di mitico, non impeto di uomini che obbediscono ad un comando, ma frenesia di semidei alla conquista del cielo, così Giuseppe Tellini lo descrive ed è l'assalto in cui era caduto ferito e della cui ferita doveva morire: “ E migliaia di baionette hanno scintillato al sole insieme e un urlo selvaggio, mille urla disperate, mille cuori forti palpitanti, mille animi sublimi come Dio, si sono mischiati, si sono fusi in una cosa sola sovrumana, ineffabile, terribile, irresistibile. C'era forse corrispondenza fra il Creatore e gli eroi?”.
Il triestino Scipio Slata pur non ne dubita nemmeno: “Espugnare la posizione è una cooperazione disperata e sacra. Si sente ch'è vicino Dio sul campo di battaglia”.
Carlo Cassan lo trasfigura, lo trasumana e lo fa divenire un assalto di anime: “Tutta la vita chiusa in un pugno, sintetizzata in un istante e lanciarla verso la morte con la generosità di un poeta... Da troppi anni fummo vili! Italia, Italia dolce dolorosa Patria nostra! Tu sola Patria hai diritto di vivere!”
Mentre Piegò Paolo Ghjmmj, caduto nell' eroica difesa del Trentina, in rotti accenti, poche ore prima di morire pare porti verso l'eternità la sua anima, come porta verso, le cime la sua bandiera: “Si sale il monte e si fa molta fatica, ma porto la bandiera...! La cara bandiera del mio bel Reggimento. All’assalto la sventolerò e la pianterò sul monte: se cadrò, cadrò rivolto in essa e pur nella morte (dolce) la stringerò con le dita rattrappite. Sono molto felice..! Evviva.. Evviva..! “.
E Paolo Barconi alla stessa sublime impresa, poche ore prima di morire, sul monte Cengalo in pieno combattimento, quasi già trascinato nell'impeto duello slancio supremo, gridava nelle ultime parole della sua ultima lettera: “Avanti, avanti sempre! I sopravviventi calpestino i corpi privi di vita dei precursori! Questo è il ponte che ci lega al domani. Io non mi sono mai sentito così come ora lietamente votato al sacrificio”. Ed egli aveva bene il diritto, mentre si offriva alla morte, di prendere il comando simbolico di tutte le schiere dei viventi e dei venturi, egli che, studente del primo anno di fisico matematica alla scuola d'applicazione di Roma, aveva scritto durante la guerra, per lui così breve, pagine che hanno riempito due volumi di diverse edizioni e che appaiono veramente come l'opera di un raro ingegno e di una grande anima; egli che vero, alto precursore, quando il nostro intervento non era stato ancora deciso, giù lungi mirava ai più grandi destini dell'Italia e degli Italiani: “Noi non vogliamo riscattare Trento e Trieste, noi vogliamo qualche cosa di più importante e di più sacro Noi vogliamo riscattare e temprare l’Italia tutta... “. E nel febbraio 1915, si pensi, scriveva queste righe che appaiono ora meravigliosamente presaghe: “Questa è l'ora dei coraggiosi e dei forti, questa è l'ora del trionfo dei lavori più degni, questa è l’ora della giovinezza, perchè dei giovani è l'età nuova che sta maturando: la nostra età, il nostro domani lo vogliamo crear noi, chiunque si opponga non potrà non venire travolto... “
Ed un altro Caduto quasi con le stesse parole: “non è soltanto per la conquista materiale delle città irredente che io voglio combattere, ma anche perché io ho fede che dalla nostra guerra si risveglierà la virtù dinamica della nostra razza, perché potremo realmente attendere ad una più completa grandezza d'Italia”.
“Mai scrive l'Orsi fummo così sinceramente e pienamente altruisti come ora. La vita, quell'altra vita, se deve venire, verrà dopo, dopo la sosta buona del ritorno che vi auguro ed anche se è possibile mi auguro. Allora ci riorienteremo, ripenseremo, ma non riapriremo il libro che interrompemmo partendo facendo in fretta un orecchio ai margini della pagina; no; ne cominceremo uno nuovo, completamente nuovo”.
E Nazario Sauro alla moglie lasciata con cinque figli: “Siate pur felici, che la mia felicità è questa: che gli italiani hanno saputo e voluto fare il loro dovere”.
Tale era, la preparazione degli animi che perfino morenti non avevano un palpito e un pensiero che per la Patria e la propria arma. Consalvo Correrci, Capitano di Artiglieria, mortalmente ferito, scriveva dall'ospedale: “Miei carissimi ufficiali, io sto molto male e attendo la mia condanna da un momento all'altro. Pazienza! Sono contento però che abbiate portato via tutti e quattro i pezzi nostri. Vado avanti a forza d'iniezioni. Tanti baci affettuosissimi e buona fortuna per la nostra batteria. Sempre forti per l'onore d'Italia”.
E addosso ai cadavere di Pietro Bonopera, anch'egli soldato di artiglieria, sono state trovate queste righe: “Ho la certezza di non vedere l'alba di domani, e non tremo, confesso però che sarei stato più contento di morire dopo aver fatto qualche cosa di più sono stato al fuoco solo quattro giorni! non fa nulla; ho la coscienza di aver fatto il mio dovere ed ho il fermo proposito di adempierlo fino all'ultimo: non mi allontanerò dal, mio pezzo, fino a che avrò un filo di fiato. Scrivo queste righe seduto al mio posto di puntatore, con il cannone già pronto per il fuoco, sono calmo e sereno della freddezza dì chi sa i propri minuti contati senza remissione”.
Evviva l'Italia Ed ecco, infine, la lettera tracciata a lapis ed intrisa di sangue rinvenuta presso un moribondo, dimenticato fra i cadaveri sul dente del Pasubio, dopo un'azione disperata scriveva il sottotenente Annibale Calini, di Brescia ai suoi, genitori “Ego dormio mio et ce meum vigilat” Egli, si accinge calmo e sorridente al grande viaggio: “E" un viaggio lunghetto, ma a me piace viaggiare; spero che Filippo e Arosio (i fratellini morti ancora bambini) verranno ad incontrarmi a mezza strada per insegnarmi il cammino. E' un viaggio lungo e non so quando potremo rivederci. Mi conforto che un giorno potrò farvi da guida. Che festa quel giorno» E' contento di partire. “Benedite, dice a questa guerra. Come il fuoco essa mi ha distrutto, ma ha coronato di luce la mia fine, ma mi ha purificato”. E aggiunge: “Credetemi non dico vuote frasi. E' troppo grave il momento. Li rincora. Siate dunque contenti e attendete il momento della riunione con la stessa calma come quando partivo per il collegio”. Dispone minutamente come devono essere distribuite certe sue cartelle del Prestito, e poiché gli pare che questi dettagli dovranno far tanta pena, cerca di scherzare. “Vedano Renato e Anna quando cominceranno a comparire i numerosi piccoli nuovi cugini, se sarà possibile dì dare a ognuno di essi, quando raggiungono una certa età, un piccolo ricordo dello zio Annibale, alpino, morto in guerra combattendo e vincendo. Raccomando ai cugini e cugine una certa discrezione nel fabbricarli”. Esorta ancora i genitori a credere nell’assoluta necessità della guerra perchè capisce che questa fede è la sola che possa aiutarli ancora a vivere. E siccome la sua famiglia ha titolo gentilizio aggiunge: ”siate orgogliosi di aver avuto un alpino nella gens. Questa è la mia soddisfazione”. Ebbene che cosa dicevano tutti quegli esempi che ci eravamo abituati a considerare come i più sublimi dettati di una superiore ragione che guarda al mistero dell'aldilà, accanto a queste parole di un ragazzo ventenne che anzichè lasciarsi vincere dallo strazio della ferita, dall'ambascia della morte, dal terrore della solitudine nella quale é stato abbandonato, trova la forza di prendere congedo dai cari e dai mondo, con il sorriso sulle labbra. Questi che ho Citato quasi a caso (e avrei potuto citare tutti) sono fra coloro, ben pochi, ripeto, dei quali ho potuto raccogliere qualche sparso accento. Che vale? Come ciascuno è morto per tutti, così ciascuno ha parlato per tutti. Anche per quelli che non hanno parlato e per quelli perché no? che avrebbero od anche hanno parlato altrimenti. Per quelli, peggio, che si sono persino sottratti al dovere di cittadini e di soldati. La realtà che qui s'impone è così alta che ogni altra realtà non ci turba, nè ci può far dubitare. L' amore non è meno l'amore se c'è chi non ama, la bellezza non è meno la bellezza se tanti sono sordi al suo richiamo. Quegli accenti, dunque, ho raccolto che mi sono apparsi materia, se non sempre forma compiuta d'arte, arte nel senso più universale e profondo, rispondenza ineluttabile, per il pathos onde scaturisce, di sentimento e di espressione, che rende la creazione umana simile alla creazione della natura. Si ché vostr'arte a Dio quasi è nepote. Ma, cosa ancora più rara e mirabile, identità, qui, di pensiero e di azione, di amore e di sacrifizio; arte che si trasforma in vita, verbo che si fa gesto, sangue che s' accende in fiamma, passione tanto vasta da non trovar pace che nell'Eternità. Materia incandescente gettata nella forma, in mezzo al turbine della guerra, col rapido gesto del fonditore, nelle condizioni più inadatte ed ingrate, senza possibilità di elaborazioni, senza volontà di ravvedimento, non si può, né si deve ricercare in essa perfezione di stile. Peggio sarebbe stato apportarvi a correzioni. Le lettere vengono perciò pubblicate così come sono. Senza, modifiche, di alcuna specie, neppure nell’interpunzione. Perfino l'amputarle di periodi che riferendosi a particolari rapporti di famiglia era superfluo ripetere, mi è riuscito penoso Come se ne venisse diminuita l'unità, e la sincerità. Più, grandi ancora sarebbero apparsi, forse, i grandi sospiri dell'anima e più tenere e intime, accanto le piccole preoccupazioni dettate dagli affetti e dagli interessi famigliari. E tuttavia, anche letterariamente, queste pagine, molte delle quali potrebbero considerarsi, vero testo di lingua, possiedono una loro intrinseca bellezza, la bellezza ho detto, creata dall'aderenza istintiva, inspirata e che qualche volta appare miracolosa in chi, non aveva lunga preparazione di studi o consuetudine nello scrivere, della parola col sentimento e col pensiero. E non temo che in alcune di esse appaia quella che usiamo chiamare retorica. Vi è retorica e retorica. La vacua di contenuto e tuttavia vanagloriosa che nasce da ristrettezza di menti mista a pretenzione e quella che, invece, nella sua apparenza umile, anzi un poco ridicola di abito fatto, rivela subito la natura e il valore dello spirito semplice o noncurante delle forme, quali non si sforza di raggiungere o che ha superato. Dacchè non è fine di questo volume esaltare singoli, Caduti, ho limitato le notizie biografiche ai dati essenziali Nascita, titolo di studio, Grado ed arma Giorno e fatto della morte, Onorificenze al valore. Quasi tutti appaiono, infatti, decorati di una o più medaglie. Ciò non ha, naturalmente, alcun rapporto con la scelta dalle lettere, tanto più che la maggior parte delle notizie relative alle onorificenze sono state raccolte quando il volume era già, in bozze. E' prova invece che non solo l'azione fu in essi alta come la parola, ma che i superiori e ì compagni superstiti riconobbero e chiesero ne fosse riconosciuto l'eroismo con il più nobile segno d' onore. Non fu dunque una contingenza la loro Morte sui campo, bensì un'altissima meta. Per ordinamento ho Scelto quello che e mi è sembrato più chiaro e logico. Ho disposto le lettere salvo eccezioni volute da altre regole, secondo la morte degli autori. Se alcune, anche tra le ultime, riportano ai primi tempi del conflitto, tuttavia le più numerose sono vicine alla morte stessa e memorano, e talune anche descrivono con tocchi di semplice e grande potenza le fasi salienti della guerra. Ciò anche perchè non tutti i combattenti si sono trovati al fronte dal principio e i più, fra i più generosi combattenti, non impunemente si sono avvicinati agli alti roghi accesi delle battaglie. Esse si aggruppano così, quasi naturalmente, intorno ai principali eventi. Riconducono alla trepidazioni, della primavera 1915, mentre il nostro intervento, non ancora sicuro, era già risoluto nella coscienza dei più, e all'auspicato inizio e alla rapida avanzata e all'arresto sull’Isonzo, alle cui sponde, come più tardi a quelle del Piave, approdavano per lungo tempo tutti gli animi degli, italiani. Poi primi attacchi e le prime ecatombi fra le doline del Carso e l’inverno in trincea e il risveglio angoscioso della tremenda offensiva del '16 nei Trentino e la meravigliosa resistenza sui margini estremi Agli Altipiani che, sia pure a costo di tanta morte, ha salvato l'Italia da quella che sarebbe stata realmente, una catastrofe irreparabile. Subito dopo, la conquista fatidica di Gorizia, alla quale, prima di Trieste lontana sull'azzurro del cielo e del mare, si affacciavano gli sguardi e i cuori dei soldati, come ha cantato Vittorio Cocchi Ognuno la chiamava col nome del suo amore; uno le offriva il cuore e uno il suo dolore... E l'anno successivo, fra i rinnovati sanguinosi combattimenti dal San Michele a Monfalcone, la sventurata azione fra Asiago e Cima Dodici che si riassume nel nome dell'Ortigara, nudo pianoro diventato vasta tomba del fiore dei nostri alpini e in autunno, la conquista della Bainsizza, seguiva Caporetto e dalla ritirata sul Piave, che sì alla eco d'ira e di dolore desta nelle lettere dei combattenti. Finalmente nel '18, dalla riordinata difesa alla grande vittoria del Giugno e al trionfo finale di Vittorio Veneto. Il giusto trionfo, atteso, il cui rito di apoteosi celebrato soltanto dopo due anni sul Campidoglio, in una visione di allucinante esattezza, nell'ora più tragica della guerra, sì grande era ancora la fede nella vittoria, il Capitano Francesco Padovani aveva scritto - in una tenera lettera alla moglie: “Come darei tanti anni della mia vita per rivederti sana, florida e spensierata! Tu mi comparisci con le tue lettere come un giunco esile che voglia spezzarsi per volontà propria, quando ancora la nostra missione non è compiuta, missione di gloria che i posteri invidieranno e di cui inorgogliremo nei bei giorni di sole, sull' Altare della Patria, sotto i sacri rintocchi del Campanone del Campidoglio..! Non, ti ricordi quegli squilli fatidici del maggio 1915? Così quando sventoleranno i vessilli dei nostri baldi e gloriosi Reggimenti su quell'ara consacrata alla più grande Italia, in un cantuccio noi baceremo con gli occhi quei drappi strappati dalla mitraglia e beveremo avidamente gli Inni sacri della Patria, lì, a Roma, dove nel nostro piccolo nido, sognato nei giovani anni di ascensione nella vita, gioimmo e soffrimmo insieme. Per te, mia dolce compagna e gioia, io guardo il sole della nostra grandezza avvenire pensando al giorno in cui sarà cantato il trionfo della nostra stirpe, e sarà ricompensa grande per me una tua lagrima di commozione, un lampo d'orgoglio tuo». Quali frammenti di astro che solchino all'improvviso la notte e ci danno il brivido ed il senso del mistero infinito, queste pagine ci rivelano alla luce di mirabili lampi, l'anima divina della Stirpe, l'anima divina dell’Umanità. Dell'Umanità, perché la maggior parte di queste parole superano ogni frontiera delle patrie e attingono direttamente ai più alti cieli dello Spirito. Dell’umanità perché sarebbe un’imperdonabile colpa dimenticare che ad esse rispondono mille e mille simili parole, infiammate dallo stesso ardore e che altri uomini, altri soldati di altri eserciti, cittadini di altre nazioni amici e nemici che importa? …hanno pronunziato. Il terribile problema della guerra diventa cosi ancora più misterioso più tragico, insondabile. E quando gli Spiriti eletti, dinnanzi alla Mork, anelano tuttavia ad una soluzione, reclamano una liberazione, qual che si sia, al dubbio che li agita e li dispera, non trovano, sia pure per vie diverse, che una sola risposta. Una risposta che non risponde, ma che conforta, una risposta che non risolve ma che consola una risposta che giustifica il passato solo con la speranza e la fede nell’avvenire. Noi troppo odiammo e sofferimmo. Amate.
Vi è chi scopre, come Leonardo Cambisi, anche nella tempesta degli elementi l'impenetrabile Legge di un’armonia divina: “In questa grande guerra, in questo fatto superiore a tutte le nostre immaginazioni, che ha brutalmente, ferocemente sconvolto tutti i nostri sentimenti, tutte le nostre idee, una verità consolante si è a poco a poco diffusa nei nostri cuori, una pacata certezza, che permette a noi di abbandonarci, fidenti, sereni, nelle braccia di Colui che sa. — Mai come oggi abbiamo sentito che miseria, che meschina cosa siano le forze, le potenze degli uomini e come tutto sia retto da una mano potente che nessuno di noi può regolare, di cui nessuno può scrutare i movimenti. A questa mano mi affido, la so giusta e pia, so che misura il vento al vello delle agnelle, so che misura il dolore alle madri”.
Altri riconosce di non essere se non istrumento, come tutti, dell'eterna ascensione umana. Proprio alla vigilia della morte, Vaina de Pava trovandosi a giacere lungamente accanto ai suoi soldati uccisi, che egli stesso aveva condotto all'assalto, sente che è giunta l’ora della grande meditazione: “La mia opera, egli dice, mi stava davanti, imponendomi il mio supremo esame di coscienza” Ed il tragico dialogo, nella notte che cala tra le montagne, sotto le stelle che si accendono nel firmamento, conchiude con queste parole the dovrebbero essere la chiave dell’enigma: “Ero nelle loro case adesso: bocche bramose attorno alla gran tavola, fronti chine sul rosario, fatti e pensieri semplici come l'eternità anche, la loro morte rientrava in un ritmo infinito. Qualche cosa di più grande di me, di, loro, del mondo stesso la riassorbiva con una grande serenità. Io ero giustificato, la mia vita sullo stesso piano della morte, come domani la mia morte per altre vite, per il trionfo di altri vite, per il trionfo di altri ideali sopra uno stesso piano provvidenzialmente ascendente”.
La stessa suprema Legge di sacrifizio per il Bene, cui si giunge ineluttabilmente anche per le più terribili vie, enunciava Giosue Torsi cosi: “Qua staccato dal mondo, sempre con l'immagine della morte imminente, ho sentito quanto sono forti i legami col mondo, quanto gli uomini abbiano bisogno di amore reciproco, di fiducia, di disciplina, di concordia, d'unità, quanto siano necessarie e sacrosante cose come la patria, il focolare, la famiglia, quanto sia colpevole chi le rinnega, le tradisce, le opprime —Amore e libertà per tutti, ecco l'ideale per cui e bello offrire la vita. Che Dio renda fecondo il nostro sacrificio, abbia pieta degli uomini, dimentichi e perdoni le loro offese, dia loro pace e allora, non saremo morti invano” Ahi, che intanto la guerra, se pure doveva compire le Nazioni, spezzava i legami spirituali del mondo! «Ce qui me fait le plus de pane dans la guerre europeenne ce n' est pas la destruction des vies humaines ; la vie achevee a moitie de son cours par le sacrifice, acquiert une valeur et une noblesse que, quiconque croit a l' immortalite des ames, doit un peu envier. Ce qui est plus dur à penser, c'est que cette guerre, en dechainant les haines des peuples, detruit presque completement le travail de fraternitè spirituelle que l'humanitè avait commencè”. Così scriveva nell’idioma della Savoia, patria di origine, quell'Elia Ernesto Begey con le cui parole di spasimo e di rassegnazione insieme, ho iniziato queste note. E nella lingua del più fiero nemico, il giovane poeta tedesco, dalla Marna sembra rispondesse con un grido di così disperata passione da suonare come un grido di passione: “Sulla Marna oggi sento il mio cuore più grande della Germania e della Francia unite e lo attraversano tutte le armi del mondo” Tre anni dopo la fine della guerra è ancora un poeta, un grande poeta di un'altra nazione, Budyard Kipling il quale per bocca del più potente monarca del mondo Giorgio V, che ne leggeva il messaggio dinnanzi alle tombe dei Soldati Inglesi Caduti sul fronte italiano, dove era morto eroicamente combattendo anche il suo unico figlio, ammonisce solennemente: “In questa esistenza dove gli uomini sono debitori gli uni verso gli altri, io ardisco sperare che l’umanità, la quale riprende il suo ciclo e si rende conto degli innumerevoli errori passati, farà si che, con l'aiuto di Dio, e per quanto possa essere nelle forze uomini di Stato, la guerra non sarà sempre considerata come un flagello fatalmente ricorrente ed inevitabile per la schiatta umana. Per l’onore di questi morti ed in prova del nostro amore e del nostro orgoglio noi abbiamo, preparando loro duraturi avelli, impresso un visibile segno di questa nostra speranza”. Ed è anche per questa nostra speranza, che era la Loro speranza, si salvasse e si compisse che Essi hanno offerto la vita. L'hanno offerta, simili agli antichi Martini, innalzando un supremo inno di Grazia, quale, pochi giorni prima di morire, uno degli Eroi, cantava: “giacché un potere ignoto ci regalò il mondo, amiamo il mondo. Giacché ci creò atti a compiere cose grandi, amiamo la nostra forza. Giacché ci creò molti ed utili l'uno all' altro, uniamoci ed amiamoci”. Le Loro parole, divina semente gettata nel sanguinoso solco della guerra, germoglieranno un giorno in fiori di Pietà e di Giustizia.