Quota 1050 Il gruppo del Kaimakcalan, o più propriamente il Selecka Manina rinserrato nell'anello della Cerna, con una serie di monti e di colli degradanti, che formano ora leggere vallette, ora profondi burroni, in un capriccio di cime, di vette, di cupole, di gobbe, dirama i suoi contrafforti nell'ansa della Cerna. Uno di questi contrafforti è costituito dalla quota 1050 che, con le numerose pendici articolatissime, vista di lontano, pare strozzi la pianura all'altezza di Monastir. La montagna, assolutamente spoglia di vegetazione, ricorda non poco la fronte italiana per la natura carsica del terreno. La posizione era di somma importanza per il nemico, sia perché, appoggiandosi dall'altro lato a quota 1248, costituisce un potente baluardo a difesa della via di Prilep, sia perché, sporgente com'è nella pianura, ha questa nel completo dominio. Non si muove un passo fin giù da Florina senza essere visti da quota 1050. La zona affidata alle truppe italiane andava, quasi in un ampio arco di cerchio, dal ponte di Novak sulla riva sinistra della Cerna, ad oriente di Monastir, fino al Piton Rocheux, con una lunghezza di fronte, di circa 16 chilometri. La linea, con una direzione approssimativa ovest-nord-est, convergendo mano mano verso quella nemica, si svolgeva in pianura per circa sei chilometri di fronte, fra il territorio di Dobromir e il torrente Suha, ad una distanza dal nemico variante fra i mille e i seicento metri. Indi, girando le falde della montagna con un saliente di fronte a Vlaklar, saliva le pendici nude e rocciose della quota lungo la cresta meridionale del vallone di Meglenci, e dalle rovine di questo villaggio, dominata dai torrione A detto pitoncinto dalla linea nemica come in una collana, si arrampicava audacemente con una erta trincea sulla quota raggiungendone la vetta in un punto, il Castelletto, proprio in faccia alle vedette nemiche. Indi, declinando di nuovo sotto le ultime roccette culminanti della quota, continuava a mezza costa nell'anfiteatro dei pitons Vert, Brùlè e Rocheux. Le condizioni della linea, tenuta prima di noi dalle truppe coloniali francesi, erano deplorevolissime. Mancava assolutamente una sistemazione difensiva e la linea occasionale, sulla quale erano stati arrestati i serbi nel novembre, era rimasta quale era all'epoca dell'avanzata generale. Gli uomini, appostati in buche isolate, sparpagliati fra le rocce o aggruppati in piccoli nuclei, senza alcun collegamento, erano quasi abbandonati a se stessi, in una posizione durissima per la difesa e difficilissima per la offesa, del tutto dominata dal nemico che, per di più, nell'anfiteatro del Brùlè, ci puntava alle spalle le mitragliatrici dalla quota e dal Rocheux. Innanzi ad una simile linea, che per i numerosi ravin, si prestava ad ogni sorta di insidia e di sorpresa, era una rada fila di gabbioni. Per lunghi tratti mancava addirittura ogni specie di reticolato. Non un camminamento. Movimenti di truppe e di rifornimenti alla completa merci' del nemico. Questi, favorito dalla sua posizione sovrastante, s'era sistemato in modo formidabile, disseminando lungo la trincea un numero considerevole di mitragliatrici, di cannoncini e di bombarde, che battevano in ogni senso. Un ufficiale superiore, nel fare il suo rapporto sulle condizioni nelle quali aveva preso il settore, concluse rudemente: «se si vuole che ci manteniamo in caso di attacco su di una simile linea, significa pretendere troppo dalla virtù nostra. E non era una esagerazione. (omissis).. Le Brigate Sicilia e Ivrea, trasferite dal fronte dei Beles, furono inviate senz'altro in linea negli ultimi giorni del dicembre 1916, la prima da Novak a Maglenci, la seconda da Maglenci al Rocheux. Appena sulle posizioni dovettero iniziare i lavori di sistemazione e di rafforzamento. Una Brigata in riserva divisionale: la Cagliari, per un mese avrebbe dovuto riposare. Ma, trasferita dal fronte di Monastir ai valloni di Jaratok e di Gniles, dopo oltre quattro mesi di marce, di trincea, di combattimenti, di lavori, non ebbe neppure il tempo di acconciarsi la tenda, di ripulirsi del fango che era entrato nella carne, di liberarsi dei pidocchi che riempivano i panni. La sera stessa dell'arrivo a Jaratok e a Gniles, il fante, armato di fucile, di picco e di gravina, prima che annottasse si avviò sullo sperone di Orehovo per la costruzione della seconda linea sotto le raffiche dei cannoni. E cosi tutte le notti. Col freddo, con la pioggia, con la neve. Due ore di marcia, sei di lavoro, due di marcia pel ritorno all' accampamento quando nella oscurità non si perdeva la traccia di un sentiero e non si finiva col vagare disorientati fino a giorno fra le montagne sconosciute o nella pianura gravata di nebbia. I lavori sono stati un vero miracolo. Una trincea continua fu rapidamente tracciata in pianura e mano mano approfondita. Il terreno ammollato dall'acqua facilitava il compito. Ma, appena alle pendici della quota, e lungo tutta la rimanente linea, il lavoro era titanico per la dura roccia che bisognava scavare. La deficienza dei mezzi era sconfortante. Non si aveva come far brillare una mina, e tutto lo scavo doveva farsi a furia di piccone. Le mani si laceravano, le reni si spezzavano, ma non c'era riposo. Il numero degli uomini non era adeguato alla lunghezza della linea, e le vedette, finito il loro servizio pericoloso ai piccoli posti, pigliavano il piccone, gli altri, lasciato il piccone, andavano ai piccoli posti. Fin che non spuntava l'alba. Le falciate delle mitragliatrici ogni momento frusciavano la loro ventata mortale sui piccatori tenaci; una scarica di bombarde mandava per aria i provvisori muretti di sacchi a terra. Le compagnie di rincalzo, nei valloni retrostanti, durante il giorno apparecchiavano i cavalli di frisia; durante la notte li trasportavano in linea inerpicandosi piano per gli stretti e ripidi sentieri rocciosi che i cannoncini battevano con scariche improvvise. I razzi si innalzavano senza interruzione, e nella notte buia, spesso piovosa, proiettavano la loro luce viva, lunga.(omissis). Nel terreno melmoso, lungo il sentiero di Orehovo, e giù a Suhodol, accanto alla chiesetta dirupata, si rizzavano delle croci ogni notte. Verso la metà del 1917, col nuovo comandante la divisione Generale Pennella, si ebbe finalmente una maggiore disponibilità di materiali. Le perforatrici bucarono la montagna in tutti i sensi, e la truppa mano mano fu sottratta alla carneficina dei bombardamenti. Le mine squarciarono in lungo ed in largo la roccia, la linea divenne continua, i camminamenti profondi. Egualmente i lavori della seconda linea, affidati alle truppe a riposo, procedettero ininterrotti, senza però un concetto ben definito. Dopo avere scavato per mesi e mesi trincee e camminamenti, per chilometri e chilometri, dopo avere sollevati muraglioni di sacchi a terra, che gli acquitrini, la pioggia e il sole infradiciavano e demolivano, dopo aver fatti ricoveri, caverne, piazzuole…..le varianti, le modifiche o l'abbandono del tutto di lavori già al loro termine per nuove costruzioni, tolsero la possibilità di un turno di effettivo riposo. Si è lavorato fino a che l'avanzata vittoriosa del settembre 1918 non tolse finalmente il soldato dalla trincea, mentre sistemava le linee secondo i nuovi concetti difensivi degli «isolotti». Sul principio del 1918 fu anche iniziata la costruzione di una terza linea. Per questa fu fatta grazia al combattente. Furono costituite le centurie di lavoratori con i soldati delle classi anziane dal '79 all'82. ** Con simile vita gli ammalati non si contavano più. Alle vecchie malattie si aggiunsero casi di dissenteria: l'ameba. Le acque di Bilianik, della quota, di Jaratok erano inquinate. Ma soprattutto i soldati erano stanchi. I medici reclamavano il riposo, ma non si potette soddisfare alla richiesta dei medici. Le necessità della guerra sono imperiose e ad esse bisogna sacrificare tutte le energie, fino alla fine. E il fante si piegò alla necessità. Per mezzo anno non si capirono neppure i turni di linea. Il settore della pianura, nel completo do minio della palude, dal punto di vista bel era tranquillo, per la distanza delle linee loro e per le condizioni del terreno. Ma i soldati si impastavano nella melma profonda, le febbri reumatiche e la malaria mietevano. La brigata Sicilia rimase in quel settore ininterrottamente per sette mesi. Nella notte del 12 febbraio 1917 la Cagliari si avvicinò alla linea pel cambio alla Ivrea. Il 64° occupò il Rocheux, tenuto dal 161° fanteria; ma un attacco improvviso sulla quota impedì il cambio tra il 162° e il 63° che avvenne il 14 per la linea del Brulé, e il 5 marzo per quello della quota. La Cagliati ebbe il cambio dalla Ivrea il in aprile e tornò in linea alla metà di maggio, restandovi fino ai primi di luglio. Nel luglio si pensò finalmente ad un turno che, se non era meno gravoso, fu per lo meno più razionale. Pur continuandosi il turno con due brigate in linea ed una in riserva, col periodo di due mesi in trincea e uno a riposo, i reggimenti iniziarono un turno anche per i diversi settori (pianura, Meglenci, quota, Brùlé e Rocheux). In parte fu un sollievo per la quiete della pianura. ** In questa rapida rassegna di lavori, non possiamo tacere di ciò che gli italiani compirono nelle immediate retrovie della fronte. Quando passammo nel settore di quota 1050, con quello spirito di adattamento che è la più grande virtù nostra, ci acconciammo, sia alla mancanza della sistemazione difensiva della linea, come alla mancanza di ogni sistemazione delle retrovie. È quasi inutile avvertire che nell'assegnazione a noi di località, di paesi, di edifici, si è avuto sempre da parte delle autorità francesi, un criterio: darci quanto c'era di peggio. Lì non c'era di peggio che Brod; e i magazzini avanzati piantarono le loro tende a Brod, un paesetto rovinato sulle rive malariche della Cerna, ove si arriva da Sakulevo, sulla grande strada di Monastir, a traverso il fangaio della pianura. La Macedonia, oltre l'arteria che si svolge da un confine all'altro a beneficio esclusivo dei pochi grandi centri, non ha altre strade. (omissis)............ Nello squallore noi piantammo il cuore pulsante della nostra guerra. A Brod, Case dirupate, trincee ricolme dì immondizie, cadaveri insepolti, materiali di abbandonati, un marciume nauseante torno, croci disperse. Li si è combattuto aspramente nel novembre pel passaggio della Cerna. Si ripulisce, si disinfetta, si colmano le trincee, si seppelliscono i cadaveri e le carogne, si abbattono le rovine, si spiana, si aggiustano le case che si possono aggiustare per i profughi che tornano. Si divide la zona fra i vari reparti, si tracciano le strade e sorgono le baracche come per incanto. Ivi erano l'ultimo comando di tappa, una compagnia presidiaria, i magazzini avanzati di sussistenza di artiglieria del genio, la colonna munizioni, il genio pontieri, la posta, la sezione di sanità, due ospedali da campo, una sezione di autoambulanze, l'infermeria quadrupedi.... Fra lo squallore sorse in un attimo un vasto campo di tende, di tendoni, di baracche in legno ed in fabbrica, di padiglioni, fra quadrati di giardini bonificatori a cui la gentilezza italica non sa rinunziare neppure nella vita triste della guerra, con un lavoro febbrile, tenace, sistematico, che le frequenti incursioni di numerose squadriglie di bombardamento non riuscirono a paralizzare. In breve una strada a fondo solido, innestata sull'arteria di Monastir, si svolse da Sakulevo a Brod proseguendo quindi fino a Jaratok per facilitare i rifornimenti della linea. Il vecchio Ponte di palafitte e tronchi d’albero, che si dondolava come una canna al passaggio di un carretto, non poteva servire alla nuova attività di Brod. L'autorità francese vietò di completare un ponte in pietra iniziato fin dall'epoca turca. E un bel ponte in legno, ampio solido elegante, sorse in meno di un mese.(omissis).
** La difficoltà dei rifornimenti è stato sempre un grave problema per gli italiani. La ferrovia arrivava fino ad Eksisu, ove il gran ponte in ferro era stato distrutto dai bulgari durante la ritirata. Eppure, la deficienza del materiale rotabile, non ci consentì di servirci completamente della ferrovia. La strada da Salonicco era lunga e pessima. Ma le colonne di Fiat e di Itala non conoscevano ostacoli. Andavano e venivano da Salonicco e da Eksisu in una corsa incessante, nel fango, nella neve, nella polvere alta. Attivata la ferrovia fino a Monastir, vennero dall'Italia vagoni e macchine per un treno nostro. Ma le autorità francesi non ci permisero di avere un treno nostro. I franco-serbi costruirono una Decauville che, passando da Brod, andava da Sakulevo a Dobroveni, base avanzata della fronte serba. Il genio italiano costruì allora un tronco per i magazzini di Brod. (omissis). ** Dopo quanto abbiamo detto non si creda che la vita dei fanti nell'oriente sia stata sacrificata semplicemente nel lavoro. Certo il Consiglio Supremo di guerra aveva fatto della Macedonia un fronte secondario, tale considerandolo anche il Comando tedesco. Ma l'attività combattiva del nemico, durante tutto il 1917, non ha mai avuto tregua. Attività soprattutto di molestia che si è svolta principalmente nel settore italiano, là dove forse la sistemazione difensiva si esplicava con una cura maggiore e con quella pazienza e disciplina che erano ben note al nemico. Questi, quando la linea passò agli italiani, fu sollecito innanzi tutto a togliere dal settore le truppe bulgaro-turche e a porre di fronte a noi gli jager tedeschi. I lavori di sistemazione, accovacciati com'eravamo sotto il nemico, senza protezione alcuna, come abbiamo visto, richiesero una saldezza di nervi da giganti. La linea era tenuta sempre sotto il fuoco Ilei cannoni e delle bombarde. ll fuoco, ora breve, furioso, concentrato in un sul punto, Ora lento, sistematico lungo tutta la trincea, dava continuamente la impressione di un attacco. lI fante si appostava in una dolina, sì rannicchiava dietro una roccetta, pronto a respingere il nemico; ma... veniva la calma, e con essa la constatazione che un tratto di trincea scavato con tanto stento, un pezzo di camminamento appena tracciato nella roccia dura, si erano slargati, spianati; che il fragile muro di sacchetti, sollevato con tanta cautela a protezione di una buca, aveva schizzata l'arena fra le schegge d'una granata be una fila di cavalli di frisia con tanta fatica e tanto sacrificio messa al suo posto, s'erti tutta sfasciata. E il tenace rifaceva il lavoro. Il 12 febbraio 1917 però, mentre le truppe di quota 1050 si apprestavano a ricevere il cambio in linea, dopo una breve intensa preparazione di bombarde, il nemico sferrò un violento attacco, irrompendo nella trincea con il lanciafiamme lungo il tratto tra il «Castelletto» e le ultime roccette della quota. Portatori di cavalli di frisia posero subito l'intricato groviglio di filo di ferro davanti la posizione conquistata, mentre le terribili lingue di fuoco ed una fitta cortina di granate e bombarde la isolavano in un cerchio infernale. Ma la sorpresa, se alla fine fruttò al nemico un breve tratto di trincea verso le roccette, gli causò anche perdite non lievi, e gli dimostrò la forza e lo spirito combattivo delle truppe italiane che per la prima volta i tedeschi si trovarono di fronte. I fanti del 162°, ustionati ed accecati dai lanciafiamme, sottoposti ad una spaventosa violenza di esplosioni, reagirono leoninamente. Con le bombe a mano e col pugnale, in una lotta accanita corpo a corpo, riconquistarono palmo a palmo la trincea perduta, meno un tratto che una massa di reticolato tolse all'impeto furioso. Il 27 febbraio il 162° ricevette ordine di attaccare per riprendere quest'ultimo tratto di trincea. Dopo una inefficace preparazione di artiglieria (noi non avevamo ancora le bombarde) reparti del 162° mossero arditamente all'attacco, coadiuvati a destra da un reparto del 63° che scattò dalla trincea del Brulè serrando verso ovest sotto le posizioni nemiche. La lotta fu breve, sanguinosa. Il ristretto campo di battaglia era mantenuto dal nemico sotto un fuoco battente di bombarde. Il reticolato era intatto. Appena un piccolo varco ove gli uomini si insinuarono. La mischia si restrinse a quel punto. Una minima parte dei rincalzi riuscì immune ad attraversare lo schianto. La esigua forza, sempre più assottigliata, fu costretta a ripiegare nella trincea di partenza. Ma era assolutamente necessario rettificare la linea. Con l'azione del 12 febbraio il nemico aveva formato un saliente verso di noi, e con lavori di approccio tentava di occupare le roccette, il che avrebbe costituito un gran pericolo per tutta la linea della quota. E il 13 marzo due compagnie del 63° fanteria, coadiuvate da un'azione dimostrativa lungo tutta la linea tenuta dal reggimento, si lanciarono risolutamente alla conquista della posizione. Una compagnia per tre volte venne ricacciata dai tiri di bombe, di bombarde e di mitragliatrici, ma ritornò all'attacco sino a che non riuscì ad occupare e tenere i vecchi camminamenti a ovest delle roccette. L'altra, mietuta dalle raffiche delle mitragliatrici, dopo ben cinque tentativi riuscì a progredire dai 30 ai 50 metri e a rafforzarsi, in un terreno roccioso, fortemente inclinato e del tutto scoperto. Invano contro le nuove posizioni raggiunte si accanì il fuoco delle artiglierie nemiche. Da questo momento le piccole azioni di pattuglie non ebbero tregua. Il nemico cercò in tutti i modi di molestare i lavori e di pigliarci prigionieri per essere informato sulle nostre intenzioni. Fallito ogni tentativo, pensò di attaccare a fondo, e, nella notte tra il 25 e 26 marzo, dopo una mortale preparazione con lancio di proietti a gas asfissianti, attaccò violentemente e ripetutamente la linea del Brùlé tenuta da reparti del 63° fanteria. Quante morti strazianti in quella notte! E quale fermo ed eroico contegno delle truppe che, sprezzanti del pericolo, ardenti di vendetta ingigantita dallo spasimo dei moribondi, ritte sulla trincea, con fuochi nutriti di fucileria e di bombe a mano, falciarono gli assalitori! Venite avanti, vigliacchi! Il 4 aprile successivo, contro la stessa linea, con lo stesso metodo ed energia, fu ritentato l'attacco. Subì la stessa sorte. * * Ho detto innanzi che il fronte macedone era considerato come un fronte di secondaria importanza. E non a torto. Chi non è vissuto accanto all'esercito in questa campagna non può immaginare quale potenza di materiali occorra per fare la guerra, quale fantastica imponenza di rifornimenti sia necessaria. I grandi apprestamenti sulla fronte balcanica non erano possibili, per la deficienza per la difficoltà dei trasporti marittimi, per la mancanza di strade e comunicazioni per la distanza dalla base. Assicurato quindi con l'avanzata su Monastir un largo hinterland a Salonicco, doveva necessariamente abbandonarsi ogni idea di azioni e di avanzate che richiedevano mezzi che non si avevano, e che avrebbero accresciuto le difficoltà dei rifornimenti già non poche per la linea occupata. Purtuttavia, nel maggio 1917, per alleggerire il fronte francese, e per evitare, in ogni caso, il trasferimento di truppe nemiche dal fronte macedone al fronte francese, fu preparata dal generale Sarrail, comandante in capo delle armate di oriente, un'azione generale degli alleati. Il Comandante la Brigata Sicilia disse che un'azione in grande stile era una pazzia. Fu silurato. Gli altri chinarono la testa. E la pazzia avvenne. I preparativi, iniziati fin dall'aprile, furono minuziosissimi. Le retrovie si animarono nell'intenso movimento dei camion, che giorno e notte, trasportarono per lungo tempo materiali e truppe. I reggimenti furono posti in piena efficienza di forze, i campi di rifornimento delle batterie, appostate da Orchovo a Bilianik, furono per vasta estensione disseminati di proiettili; numerose batterie di bombarde di grosso calibro raggiunsero il fronte e portarono alla quota il loro poderoso contributo; le squadriglie degli aeroplani, nelle frequenti quotidiane incursioni di esplorazione e bombardamento, si apparecchiarono a cooperare la fanteria. Questa complessa preparazione fu pure una potente preparazione dello spirito. Il fante, acquistando mano mano la sicurezza del trionfo, aspettò impaziente, quasi eccitato, l'ora dello scatto. Negli ultimi giorni di aprile cominciarono i tiri delle artiglierie e delle bombarde, tiri lenti, di prova, di aggiustamento. Ora di giorno, ora di notte. Cessavano per qualche giorno. Ripigliavano. A poco a poco si andarono intensificando in un lavoro di sistematica distruzione. Le nostre bombarde eseguivano un tiro cosi preciso, che il fante esplosioni di gioia infantile. Il nemico ora taceva ora rispondeva con fuochi di controbatteria, metodici, senta accanimento, ora con una tempesta rapida violenta di proiettili di ogni calibro sulla trincea. Finalmente un subisso di ferro e di fuoco precedette, il 9 maggio, l'attacco delle fanterie. Giornate veramente epiche, il cui ricordo ravviva tutte le emozioni provate! Il fronte era tenuto dalle Brigate Sicilia e Ivrea, l'una da Novak a Meglenci; l'altra dalla quota al Rocheux. La Cagliari era di rincalzo con i battaglioni dislocati dietro tutta la fronte di combattimento. All'ordine di attacco il grido di «Savoia! echeggiò come una minaccia inflessibile. I fanti, scattati dalla trincea, si avventarono a testa bassa come tori nella furia. Incuranti del fuoco infernale che decimava le ondate, i soldati della Sicilia passarono di corsa la valletta di Meglenci; quelli della Ivrea si inerpicarono risoluti per le rocce e per i pendii ripidi dalla quota al Rocheux. Superarono i reticolati infranti, saltarono nella trincea nemica. Era presidiata da poche forze che vennero accoppate; ma lo scoppio terrificante dei campi di mine, lanciò per aria sbrandellati centinaia di corpi. Uno spaventoso olocausto, che non arrestò l'impeto. I superstiti, accesi di furore, oltrepassarono la trincea, raggiunsero la seconda linea. Lì la terribile battaglia si svolse! Guai pel nemico! Il calcio del fucile, la baionetta, il pugnale, le bombe a mano, lo respingono sempre più indietro, giù per la quota, la quota del tormento che finalmente è nostra! La resistenza è accanita. Il terreno è conteso palmo a palmo con una esasperazione di belve. Mano mano la linea di combattimento scompare nella lotta dei singoli. Un groviglio di uomini affannati, ruggenti, feroci, si rotola, corpo a corpo, sulle rocce, nei camminamenti, nei ricoveri, nelle trincee di seconda e di terza linea. Le opposte artiglierie battono senza posa dappertutto, e una nuvola densa del fumo delle granate, che piovono come una gragnuola sterminatrice, avvolge e nasconde il campo della lotta. I feriti non si contano. I posti di medicazione li allineano allo scoperto. I portaferiti fanno miracoli nello sgomberare il campo che si semina di morti, di gente che spasima, di gente che agonizza. Non è possibile soccorrere tutti. È una processione di barelle. Tutti i portaferiti della Divisione son lì a cercare nel fumo, fra gli schianti delle granate, fra l'incessante fruscio delle mitragliatrici. È un sacrificio immenso. Giovani ufficiali, ufficiali superiori, sforacchiati, sbranati, stroncati, maciullati. I soldati non hanno più capi. Eppure la lotta continua. Il fante è di là. Ha sorpassato la quota, e, con una tenacia che sa di pazzia, non vuole lasciarsi strappare la bella preda! Ma il nemico, che ha le sue riserve nelle caverne, oppone nuove forze fresche, soverchianti, ai nostri stanchi, esauriti assottigliati. Le riserve, aggrappate alle rocce, ammassate nelle doline, senza nessuna protezione contro il fuoco sterminatore delle artiglierie nemiche, son decimate nell'attesa dell'impiego, e, spinte nell'azione, vi arrivano disfatte. E il fante, che con tanto eroismo aveva afferrata la vittoria, è respinto e ripiega. L'azione delle artiglierie e delle bombarde continuò pel resto del giorno e durante la notte. La mattina del 10, impegnandosi anche reparti della Cagliari, la lotta delle fanterie ricominciò. I fanti uscirono dalla trincea sconvolta, con Io stesso slancio, attaccarono con lo stesso ardore del giorno precedente. Ma il nemico era pronto a riceverci. Aveva trasportato altre forze in linea, scaglionandole in profondità nelle numerose caverne. E come avanzavamo, nuove forze sbucavano di sotterra e ci circondavano. Ci difendevamo con la baionetta, col coltello, con le unghie, coi denti. Ci trincerai vino dietro le masse dei morti. Alle spalle non avevamo più nessuno. E il nemico, sempre più rafforzato, incalzava, protetto da una violenza fantastica di artiglieria. Resistemmo come potemmo in quell'inferno, quando arrivò l'ordine che l'azione era sospesa... L'azione generale era fallita! Sui lati, si disse, le truppe alleate non si erano mosse. L'ordine di sospendere l'azione, si disse ancora, fu dato a noi con ritardo, quando le truppe italiane si erano già impegnate e il loro slancio superbo poteva fare sperare nella vittoria, e quando la preponderanza nemica, apparecchiata contro di noi, si manifestò e tolse ogni speranza di vittoria! Quanti morti? E quanti feriti? I medici dissero: migliaia. Per nullal... A Sakulevo, ove i treni ospedali non riuscivano a caricare le masse rinnovantisi di feriti, era il generale Sarrail. Egli era con la sua giovane sposa in una vettura salon tutta adorna di bandiere e di fiori, e sturava champagne bene augurando alla felicità delle sue nozze recenti. E le migliaia di infelici passavano! Un giovane capitano, che le molteplici ferite alla testa, al torace, alle gambe, tenevano immobile sulla barella, con un grido che pareva un ordine lanciato nella battaglia, gli disse sul muso: «va via miserabile». In quel giorno il generale Petitti di Roreto, chiamato ad altro incarico in Italia, cedette il Comando della Divisione al generale Pennella che assunse un contegno più energico verso il Sig. Sarrail. Dopo la infelice azione corse voce tra i fanti che, in una fiera lettera glorificante la gesta eroica, il generale Pennella avesse fatte le sue rimostrante a Serrail per il sacrificio inutile... Inutile? Pel generale Sarrail forse no. I preparativi erano stati fatti con una pubblicità che ci meravigliava non poco. Non ci avevano fitto in mente che il silenzio ed il segreto sono i più potenti fattori della vittoria? Invece, dalle più lontane retrovie, e da molto tempo prima dell'azione, arrivavano alla linea mille particolari. E poi tutto si svolse sotto lo sguardo del nemico che ebbe agio di osservarci da quota 1050. Infine il bombardamento delle posizioni, iniziato tanto tempo prima dell'azione, e con quel sistema intermittente, che pareva dicesse al nemico «state pronti, vi attaccheremo». E il nemico stette pronto. Alcune divisioni bulgare e tedesche stavano per lasciare il fronte macedone. Tornarono indietro ed infransero la nostra avanzata. Non si proponeva questo il generale Sarrail? Se poi gli italiani sfondavano la linea tanto meglio. Si sarebbe andati tutti avanti, e il generale Sarrail avrebbe accresciuta la sua gloria, e la gloria dell'esercito di... Francia... ** Dopo i fatti del maggio, l’attività dell'artiglieria nemica non ebbe tregua; le azioni delle pattuglie furono frequentissime come per tastare le condizioni di spirito delle nostre truppe dopo l'infelice tentativo. La lunga linea era sguarnita e per Ie perdite, i vuoti della disfatta non furono colmati che in piccola parte. Ma il fante vigila e sa centuplicare le sue forze! Nella notte del 13 giugno, dopo una preparazione di artiglieria durata due giorni, il nemico attaccò il settore della quota tenuto dalla Cagliari. L'attacco, iniziato con l'invio di grosse pattuglie, si sferrò al grido di urrah, contro le trincee della quota tenute dal 63° fanteria. Ma s'infranse contro la tenace resistenza dei nostri, e il nemico consolò la sua rabbia con un intenso bombardamento della linea anche a granate asfissianti. A questa irrequietezza del nemico si oppose naturalmente la nostra aggressività, con la sortita continua di pattuglie di molestia e con frequenti colpi di mano su tutta la linea. Il 30 agosto, anzi un colpo di mano portò addirittura di nuovo alla conquista della quo-ta da parte dei soldati del 161 fanteria che, per parecchie ore, resistendo ad un violentissimo bombardamento, si fermarono nella trincea nemica. Questa attività continuò ininterrotta fino a che l'annunzio del disastro di Caporetto non si abbattette su di noi lontani, con tutto lo stupore di una sciagura tremenda, disumana. L'attesa di notizie accresce l'accasciamento. Mille voci tendenziose, che si diffondevano tra i fanti, ci riempivano di paura. Dalla cima del Piton A, indi dall'alto del Brùlé e Rocheux, ogni sera in pretto italiano, una voce robusta, lenta, monotona, scandendo le parole, inveleniva il dolore. «Italiano... Non sparare….. Senti L'inseguimento nella pianura veneta delle truppe italiane.... in piena disfatta... continua Abbiamo catturato... ottantamila prigionieri.... ». Italiano, senti... La vittoriosa bandiera austriaca... sventola a Udine.... ». Oh, nei primi giorni, come quella voce cadde terrificante nell'anima del povero soldato! E non arrivava posta, non arrivavano i giornali. Le teste si chinavano oppresse nella visione della sconfitta. I friulani, raggomitolati, la testa sulle ginocchia, piangevano la loro terra invasa, la famiglia dispersa, i pochi averi distrutti. Nessuno aveva la forza di reagire a quella voce che inesorabile pareva definisse il nostro destino. Reagire? A che scopo? Tutto si travolge! Due anni di vittorie, due anni di cammino tenace verso i confini migliori, due anni di lotta titanica! Tutto perduto! Ogni fante, nel raccoglimento angoscioso, rievoca alla mente la sua battaglia, la sua battaglia. il Podgora, il Sabotino, Oslavia, Gorizia, il S. Michele, Sei Busi, S. Martino... Quanti morti là su...! Per nulla? Tutto ai sgretola? Tutto è finito? Quando il nemico, nel nostro silenzio di lutto credette di aver compiuta la disfatta del nostro spirito, aggredì, violento, spavaldo sprezzante. «Arrendetevi, vigliacchi... ». Vigliacchi? Chi ha detto che il fante italiano è vigliacco? Oh, no, in nome di Dio! Nel novembre e nel dicembre, ogni notte, dopo una tempesta di bombarde, il nemico si lanciò contro la nostra linea. I fanti della Cagliari, della Ivrea e della Sicilia, repressero l'angoscia, si rizzarono, seppero ritrovare tra tutti i dolori soverchianti, l'antico spirito di guerra e con esso nessun impeto valse. Resistere. E reagire. Opporre al nemico, che ci crede moralmente sfiniti, tutta la nostra forza vigorosa ancora, vigorosa sempre. Un'azione nemica finiva, e le nostre pattuglie, lungo tutta la linea, andavano audaci e sprezzanti a lanciar le bombe nella linea nemica. Sul Piave l'anima italiana disse che non era disfatta e che nella sventura le grandi energie non si erano disperse. E a poco a poco si spense anche l'arroganza nemica di fronte a noi. Cominciarono invece ad arrivare notizie di gravi turbamenti interni in Bulgaria e Turchia. (omissis).............. Sul fronte macedone, ai primi del '18, cominciò pel nemico una stasi. Attaccò più raramente, mentre l'attività delle nostre pattuglie divenne sempre più aggressiva, fino a che non fu sferrata l'offensiva generale che determinò la capitolazione della Bulgaria: inizio dello sfacelo. ** In questa rapida descrizione della vita di guerra della 35° Divisione sulla fronte macedone, c'è elementi sufficienti per non spiegare il silenzio di cui il Comando Supremo ha creduto circondare il tenace contributo alla vittoria portato da quelle truppe che, anzi, una taccia di «imboscati» ricompensava e ricompensa dei sacrifici non lievi. E sacrifici in tutto. Al lungo, attivo periodo di trincea, succedeva un mese di riposo. Abbiamo visto quale specie di riposo. E con quale conforto materiale? A due ore di marcia dalla linea, sono i valloni di Jaratok e Gniles. Jaratok e Gniles., due paesi. Un ammasso di case di fango che sperdono la loro rovina di guerra nella desolazione di uno dei tanti valloni che si profondano fra gli speroni del sistema del Kaimakcalan. Li si piantavano gli accampamenti. Pendii ripidi sui quali gli scogli paiono scivolare nel fondo dei torrenti, dei burroni, (omissis)................ Tutta roccia che la pioggia sgretola, e arena che l'estate macedone rende abbagliante e infocata. Nessun segno di vita per coloro che, scampati alla morte, vorrebbero alla vita cantare un inno di gioia. Su di un dorso nudo, proprio di faccia alla quota, i tumuli e le croci di quelli che morivano nella loro via crucis al vicino ospedaletto someggiato. Le tende si piantavano oblique fra le rocce e gli scogli. La pioggia, con cento rivoli, le inondava; il vento, che si insinuava impetuoso nelle gole, le divelleva dall'arena ove non regge il picchetto; il sole le infuocava come fornaci. E non c'era acqua per bere. Il fante, nelle poche ore che gli lasciavano libere, s'arrangiava alla meglio. E finì con l'adattarsi anche allo squallore di Jaratok e di Gniles. Sorse qualche baracca coi muri a secco, ove le lucertole e i topi facevano i loro nidi numerosi. Eppure quanta gioia ingenua non dava quella casa! Verso la metà del ' 17, alla iniziativa del fante, inesauribile, il Comando della Divisione pensò di aggiungere la sua Integrazione. Costruire. Il soldato a riposo non deve stare sotto la tenda. Finalmente! Studi, progetti, circolari, istruzioni... Largo arrivo di materiali nei magazzini del Genio. Calce, cemento, sustacchine, tavole, eternit, cartone incatramato.... Il fante, che la notte andava ai lavori di seconda linea, seppe sottrarre al riposo la giornata, e si mise a far brillare le mine, a spaccar pietre, a spianare le rocce, a sollevar mura. Per fare la sua casa. Ma, come è sempre succeduto al fante, a quello della trincea, quando le mura s'erano sollevate, i magazzini del Genio non avevano più materiali di copertura. La sorte del fante! E le mura rimasero a testimonianza di un'altra fatica perduta! La vita militare non impone che doveri a cui bisogna fare il sacrificio di tutto. E questo completo sacrificio è stato sopportato con virtù sublime dalle truppe d'oriente. La posta ora arrivava settimanalmente con una certa puntualità, ora prostrava lo spirito in un'attesa lunga di settimane e settimane. La distribuzione delle cartoline in franchigia spesso, con un pretesto qualsiasi, veniva sospesa per periodi lunghissimi. Il più delle volte mancavano le cartoline postali, e il fante, per dare notizie alla famiglia ansiosa, pigliava un cartone o le tavolette dei pacchi di cartucce, o incollava un pezzo di carta bianca su cartoline già usate, e scriveva così. La posta naturalmente non dava corso, e il fante ci rimetteva la fatica e il francobollo. La Divisione, trasferita dalla fronte italiana, non usufruiva della licenza invernale dal dicembre 1915 e dal gennaio 1916. A che contare l'acuta nostalgia della famiglia che s'ingigantiva nella lontananza dalla Patria, nella mancanza di ogni conforto, nella solitudine del deserto? La difficoltà dei trasporti! La eterna necessità che scusava tutte le deficienze! Vennero l'on. Chiesa prima, Fon. Federzoni poi. A loro si prospettò questa oppressione dello spirito del soldato che i rigori della censura affidavano ai rigori del tribunale militare; e nel settembre 1917 si concedettero le licenze invernali anche alle truppe d'oriente: un ufficiale e 25 uomini per settimana, ogni reggimento. Spessissimo, ora per un motivo, ora per un altro, le partenze venivano differite o addirittura sospese per periodi più o meno lunghi, per modo che nel gennaio 1919, quando è incominciato il congedo delle classi più anziane, una moltitudine di soldati ha rivista finalmente la propria casa dopo una lontananza ininterrotta di 35 o 36 mesi. Non parliamo dell'equipaggiamento della truppa. Esso ha costituito sempre in Macedonia una delle più grandi disperazioni per quei comandanti di corpo che capivano quale influenza ha sullo spirito del soldato una tenuta nuova e pulita. Dopo due mesi di trincea si veniva giù dalla quota e dal Brùlé con i panni a brandelli, o dalle trincee della pianura in un luridume di fango. Quelli che tornavano dalla licenza e quelli che, dimessi dagli ospedali venivano su dal convalescenziario di Salonicco, facevano tutta una via crucis. Per un mese, per due, per tre, da una tappa all'altra, senza potersi cambiare, spesso non avevano neppure come coprirsi, erano impicciati in cento lavori, in cento corvé, rientrando alla fine al corpo in uno stato da far pietà: impidocchiati, laceri, scalzi. Rivestire tutta questa gente? È facile a dirsi. Ma ogni richiesta di indumenti urtava contro le solite difficoltà che arrivavano per-fino a far distribuire i cappotti e i corredi invernali nel febbraio, marzo o addirittura aprile, quando i rigori invernali s'erano superati dai più in tenuta di tela. In tanta miseria di mezzi ci fosse stato almeno il conforto di un vettovagliamento normale e regolare. Neppure quello. Per lunghi periodi cessava perfino la distribuzione del tabacco. Nella terra del tabacco. E il soldato, il nostro magnifico soldato, ha chinato sempre il capo, ha tutto sopportato con divina rassegnazione. Non mancavano gli spiriti ameni che agli «imboscati dell'oriente» domandavano notizia delle bellezze femminili orientali. Quegli spiriti ameni non han mai creduto che nell'ansa della Cerna noi eravamo nel deserto assoluto. E, in quanto agli imboscati dell'oriente, dicano gli ufficiali mandati per avvicendamento sul fronte macedone, quale gradita sorpresa essi ebbero e quanto fecero per ritornare al Grappa e al Piave, dica il Comando quante domande di avvicendamento di ufficiali ha respinte, e quale opera di persuasione bisognava fare fra i soldati per convincerli che per i militari di truppa non era permesso l'avvicendamento sulla fronte italiana. E dica ancora il Comando quante croci sono disseminate nello squallore macedone, quanta gente è rimasta là giù senza nessun conforto neanche dopo la morte! Quanti morti ha ingoiati il mare! Quanti feriti son passati per gli ospedali! Quanti malarici han portato in Italia il loro volto spettrale! Un dato statistico e non tutta la storia di dolore. Almeno per non sentirsi dire ad ogni passo: «Ah... voi venite dalla Macedonia. Si stava bene a... Salonicco, non è vero?... Giù, la quota... Un po' scabrosa la quota, dicono.... Ma pel resto.... ». Il resto? Quale resto? Quota 1050, 1 gennaio 1917. Italia, agosto 1919