Nell’ottobre del 1915 la Serbia venne invasa dalle armate austriache, tedesche e bulgare. Gli austro-ungarici ed i tedeschi, al comando di Von Mackensen, entrati da nord, dopo aver conquistato Belgrado proseguirono rapidamente lungo la valle della Morava ricongiungendosi poi con le armate bulgare del generale che nel frattempo avevano conquistato Nis e la parte sud orientale del paese. Per evitare l’accerchiamento, il primo ministro Nikola Pašić ordinò la ritirata verso le coste del mar Adriatico. La resistenza delle poche truppe franco-britanniche corse in aiuto alle armate serbe, non potè nulla contro la schiacciante superiorità del nemico, così a metà novembre la ritirata serba si trasformò in una corsa disperata verso sud ovest in direzione delle coste albanesi. Vennero così a formarsi 3 interminabili colonne di oltre 400.000 uomini oltre a 70.000 cavalli e 85.000 buoi. La prima colonna prese la strada per il Montenegro, passando per Scutari e raggiunse il porto di San Giovanni di Medua, la seconda raggiunse sempre il porto di San Giovanni di Medua, ma passò attraverso le montagne tra Kosovo e Albania, mentre la terza attraversò l’Albania centrale in direzione del porto di Durazzo. In testa avanzavano i prigionieri austriaci (circa 40.000), dietro di loro l’esercito serbo e migliaia di profughi civili. Marciavano senza sosta lungo sentieri innevati, esposti al vento gelido dell’inverno ed ai continui attacchi di popolazioni ostili che cercavano di impossessarsi delle poche cose che questa orda di disperati porta con se. La pioggia gelida non dava tregua. I soldati, stremati dalla fame e dal freddo, ammalati, abbandonavano lungo la strada il proprio equipaggiamento, i fucili, le munizioni. Gli armamenti pesanti vennero fatti saltare. Il vecchio re Pietro seguiva i suoi soldati sdraiato su un carro trainato da buoi. Lungo la strada, una lunga, interminabile scia di morti. Solo la metà dei profughi raggiunse i porti albanesi, dai quali, tra la metà di dicembre 1915 ed il febbraio 1916, 18 piroscafi italiani imbarcarono e trassero in salvo circa 160.000 soldati serbi, 10.000 cavalli e 23.000 prigionieri austriaci. Le navi italiane fecero oltre 200 attraversate. I soldati serbi, dopo un periodo di recupero, vennero nuovamente inquadrati nelle forze regolari e furono fondamentali per la vittoria alleata.
Da "il calvario di un Re" Arnaldo Fraccaroli- 1916 “…….Fu necessario l’intervento del Principe Ereditario per convincere il Re ad abbandonare Topola, la cittadina storica dei Karageorgevic per la quale il sovrano ha un affetto veramente filiale. Ma decise solo all'ultimo momento, e decise di fuggire in un modo ben curioso: andando incontro al nemico, andando dove il pericolo era anche maggiore. È l’idea contro la quale invano si lotta l’idea del Re di andare sempre verso i suoi soldati, di trovarsi sempre con loro Gli austro-tedeschi calavano dal nord verso Milanovas, verso Kragujevaz. I soldati serbi erano la a contrastare II passo degli invasori, e Re Pietro volle andare dove si trovavano i soldati di Serbia. E andò a Kragujevaz con la Prima Armata, e si trovò in quel turbine d'orrore e di morte the squassava la Serbia settentrionale, e sofferse con i suoi soldati, senza mangiare, senza dormire, come loro, e si ritirò con Ioro, sempre fra gli ultimi: abbandonò successivamente Kragujevaz, Kraljevo, Raska; Mitrovitza, proprio quando il nemico era alle porte. I suoi ufficiali i suoi soldati tremavano per lui, ma il Re non tremava. Al colonnello Teodorovic, che a Mitrovitza lo scongiurava di salvarsi, il Re rispose: "La mia vita e quella della Serbia. Se la Serbia more, perché dovrei vivere?" A Mitrovitza si sperava che il calvario del Re del suo esercito e della Serbia fosse finito, che almeno lungo la frontiera albanese restasse, questo lembo di terra di rifugio, che ancora restasse libera un pò di Serbia. No, niente. I cannoni tedeschi si avvicinavano, inseguivano continuamente. L’esercito serbo non aveva quasi più munizioni, più pane. Il cielo era triste. Pioveva e le strade erano tutte una fanghiglia melmosa. L’orizzonte era chiuso, senza più nessuna speranza. E i tedeschi incalzavano dal nord, e i bulgari avanzavano da oriente. Si dovette fuggire ancora, scendere a Pristina, scendere a Ferisovic, addossarsi alla frontiera albanese, rifugiarsi a Prizren. Prizren è l'ultima città serba, proprio al confine. Il 22 novembre i proiettili tedeschi arrivavano sulla città, l’entrata dei tedeschi era imminente…. era inevitabile. II Re venne scongiurato di partire, ma questa volta egli si ribellò apertamente. Finchè vi era la possibilità di rifugiarsi ancora in territorio serbo si era rassegnato: ora fuggire significava passare il confine. Urla: “Nessuno può obbligare un Re ad abbandonare il suo regno!” Poi, sentendosi vecchio, debole, malato, vedendo l’angoscia dei suoi ufficiali, implorò con insistenza infantile: “lasciatemi morire, lasciatemi almeno morire qui, alle porte della Serbia?” Questa sua ostinazione nel rifiutare di salvarsi fu pericolosissima per lui che per le ultime truppe che si ritiravano e che non volevano andarsene se prima non era messo in salvo il Re. Soltanto quattro ore prima che entrassero i nemici gli ufficiali riuscirono a convincere il Re a passare la frontiera. Alle porte della città si combatteva. La fuga del Re avvenne tra una confusione angosciosa, sotto le fucilate mentre per le strade i soldati cadevano e i feriti si sbandavano urlando. II Re fuggi in automobile, col colonnello Teodorovic, col capitano Giucanovic e col dottor Situonovic, per la strada di Juncula, e dovette abbandonare tutti i suoi bagagli, le sue uniformi, persino le decorazioni. Nella sua fuga questo Sovrano non portava che una piccola bandiera serba e una busta da toeletta. Un'ora dopo, la strada di Juncula era tagliata dai tedeschi. La fuga attraverso l'Albania fu qualche cosa di spaventevole. A Juncula l'automobile non potè più proseguire: non vi sotto strade, e una successione paurosa di burroni, di valli, di montagne ripidissime. Pioveva, tirava un vento flagellava, il terreno era tutto un pantano. Più volte, mi dice Teodorovic: “vinti dalla stanchezza, dalle sofferenze, dalla fame, avemmo la tentazione di lasciarci rotolare a terra, di finirla”. Non so quale intima incosciente ribellione alla morte ci abbia dato l'energia per resistere. L'esercito serbo si riversava rotto , battuto, disfatto in Albania, nel Montenegro. II Governo era già partito per Scutari da qualche giorno. Da una settimana il Principe Ereditario Alessandro era partito da Mitrovitza col Quartier Generale diretto verso Ipek e verso Cettigne. Le dieci divisioni del primo a del secondo bando che costituiscono l'esercito attivo erano riuscite quasi completamente a salvarsi perchè la loro ritirata era protetta dalle truppe del terzo bando. Fu questa gloriosa retroguardia, composta di uomini dai quarantacinque ai cinquantacinque anni, che ebbe in questo ultimo momento la missione più dura e che salvò il giovine esercito. Il terzo bando ebbe circa cinquemila morti, gli altri, senza più alcuna via di scampo si arresero. A cavallo, a piedi, con i suoi tre ufficiali, con sei soldati del Reggimento delle Guardie per la sua scoria, il Re di Serbia, settantenne, malato, fece in sette giorni di viaggio e con u tempo orribile 150 km in montagna dal confine fino a Scutari. E nelle soste non aveva un letto e si nutriva di pane e formaggio come i suoi uomini. La fuga del Re attraverso le montagne dell'Albania fu veramente un'epopea. Non strade, non guide, solo talvolta qualche soldato caduto esausto indicava al corteo reale per dove erano passati i suoi compagni. E talvolta la strada della salvezza avevano anche indicazioni più tragiche: cadaveri di soldati abbattuti della fame, dalle malattie, dal freddo, carcasse scarnite di cavalli sui quali era avventata la furia famelica delle truppe. Una visione di sfacelo! Il vecchio Re e i suoi compagni di viaggio procedevano sbalorditi. Avevano tre soli cavalli e non fu possibile persuadere il Re a risparmiarsi il tragitto a piedi. Egli volle come gli altri sottostare al turno cosicchè ognuno fece metà strada a cavallo e l’altra metà a piedi. Durante il giorno si viaggiava, con due brevi soste per il mangiare. Per sette giorni di seguito non ebbero mai un pasto caldo, e una volta restarono anche senza pane. Ma la cosa non parve spaventevole in questa ritirata nella quale molti soldati morivano di fame e moltissimi nella disperazione mangiavano le cortecce degli alberi, mangiavano le erbe. Alla notte per dormire si cercava qualche capanna albanese. E i meschinissimi pastori che abitano sulle montagne tra Prizren e Scutari non immagineranno mai che quel vecchio ufficiale serbo pallido cadente the dormiva sulla nuda terra o che al mattino ripartiva a piedi dopo aver sbocconcellato un pezzo di pagnotta legnosa, quel vecchio ufficiale era il Re di Serbia. Una sera, presso Claimant, la piccola carovana regale smarri completamente il cammino e fu sorpresa in piena montagna dall'oscurità. Intorno, nessuno. Si chiamò soccorso con grida disperate. Nessuno. Allora il Re si ricordò che nella sua borsa da toeletta doveva trovarsi una lampadina elettrica. Ma la pile avrebbe funzionato ancora? Il Re frugò nella borsa, trasse il minuscolo apparecchio e fece la molla: e la piccola luce sprizzò dalla lampadina. Parve di vedere nel fango le tracce di un passaggio recente. Le seguirono, e fu cosi che anche quella notte poterono ricoverarsi in una capanna di pastori. Questo favoloso vagare di un Re, drammatico e inverosimile come un'antica leggenda, continuò per sette giorni. Si valicarono altre montagne, si discese per altre valli. I soldati della Guardia passarono a guado altri torrenti impetuosi portando il loro Re sulla spalle, e finalmente il 29 di novembre si arrivò a Scutari. La città era tumultuante di soldati serbi di montenegrini. II governo serbo vi era arrivato per un’altra strada, da qualche giorno. Ma la visione di sfacelo continuava anche qui, ma continuavano anche qui la fame e la miseria. E su questa tragedia gli aeroplani austriaci venivano a gettare bombe. Oh, i soldati serbi non le temevano! Esse potevano rappresentare la liberazione! II colonnello Teodorovic mi dice: “Credo che il popolo di Serbia abbia raggiunto l’estremo limite dell’orrore umano”. Dopo due tristi settimane passate a Scutari il Re che vedeva ancora intorno a se i soldati serbi fu ripreso dalla sua idea: bisogna ricostituire la Serbia. E ripartì a cavallo per San Giovanni di Medua, andò a Durazzo, ospite di Essad, dal quale si congedò con la certezza di averlo compagno d'armi: a bordo di una nave francese andò a Valona: traversò il mare, andò a Brindisi. Ed ora eccolo qui, più vicino al suo regno perduto, più vicino all'esercito degli Alleati che non hanno rinunziato alla salvezza della Serbia. L’impresa era ardua: bisognava ricominciare tutto da capo. Ma tutti speravano nuovamente.