Arrivo delle truppe Italiane -Operazioni nell'estate e nell'autunno del 1916
Abbiano esposto le ragioni per cui riteniamo fosse opportuna, anzi indispensabile, la partecipazione italiana alle operazioni di Macedonia. Il nostro Governo finì col persuadersi, ma sempre un po' a malincuore, tanto per ragioni politiche che militari, e perciò la nostra partecipazione fu mantenuta sempre in modeste proporzioni. Secondo l'accordo intervenuto fra noi e gli altri Alleati, l'Italia si impegnò, nell' estate del 1916, a concorrere alla spedizione d' Oriente con una divisione organica, però fornita della sola artiglieria da montagna; quelle da campagna e di medio e grosso calibro destinate al nostro contingente dovevano essere fornite dall' esercito francese. Vi erano allora delle ragioni per lesinare in fatto di artiglieria; l’esercito italiano ne era già insufficientemente dotato, e nell’invasione austriaca del Trentino aveva perduto parecchie batterie, specialmente di medio e grosso calibro. Tali ragioni però non continuarono sempre a sussistere, ma ciò nonostante non si volle mai dotare il nostro corpo di spedizione in Oriente di artiglieria propria, cogli inconvenienti che vedremo in seguito. Il nostro contingente era costituito dalla 35° Divisione di Fanteria, nome destinato a restare glorioso nella storia dell’esercito italiano, sebbene finora meno noto dì tanti Ad essa si erano aggiunti vari elementi di corpo d' armata e anche di armata. Originariamente la divisione era composta delle Brigate Sicilia (61° e 62° Fanteria) e Cagliari (63° e 64°), alcune compagnie mitragliatrici dei Bersaglieri a disposizione, uno squadrone del Cavalleggieri di Lucca (16°), otto batterie da montagna da 65 (su 4 pezzi), sette compagnie del genio di varie specialità e abbondanti servizi. La divisione si era fatta molto onore sulla fronte alpina, dove aveva sofferto forti perdite; ma, prima di venire in Oriente era stata riorganizzata, completata e riequipaggiata ottimamente. I1 comando ne fu affidato al Generale Petitti di Roreto, distintissimo e valoroso ufficiale, bell’uomo, gigante di statura ed eccellente organizzatore; suo capo di S. M. era l’intelligente e colto Colonnello Garbasso. Il primo scaglione della 35° Divisione giunse a Salonicco l'11 agosto 1916. Il suo arrivo fece buonissima, impressione per la bella tenuta, il perfetto equipaggiamento e il vigoroso e marziale aspetto dei nostri soldati in grigio-verde col casco acciaio che marciavano lungo la banchina sotto il cocente sole estivo. Una rappresentanza degli Alleati era a riceverli colla musica degli Zuavi. La numerosa e patriottica colonia italiana, che aveva visto arrivare truppe di quasi tutti gli eserciti alleati vi erano anche due brigate russe giunte dalla Francia - andò addirittura in delirio nel vedere finalmente rappresentata e così degnamente, anche Italia e sventolare le bandiere di, combattimento dei nostri bei reggimenti. Non era solo per rinforzare la fronte alleata in Oriente che era utile inviare un nostro contingente in Macedonia, ma anche per affermare il, nostro prestigio fra le popolazioni balcaniche. E questo, erme agli altri suoi compiti, la 35° Divisione ha, adempiuto egregiamente. II nostro corpo di spedizione era destinato a partecipare ad una offensiva sulla -fronte macedone in collaborazione colle operazioni russe e romene (l'intervento della Romania era già deciso). Ma gli effettivi di tutti i contingenti alleati in Macedonia erano troppo deboli per un’offensiva in grande, e quando giunsero gli Italiani quasi non se ne parlava più. Il Gen. Petitti doveva essere alla diretta dipendenza, del Comando in capo degli Eserciti alleati per impiego tattico delle sue truppe, ma tutte le modalità dell'impiego le doveva decidere lui, e la divisione non doveva essere scissa. Gli Italiani non erano venuti a Salonicco per restarvi a fare bella mostra, di se stessi, e il Gen. Petitti volle subito essere inviato alla fronte. Gli fu dapprima, assegnato il settore del Kruscia Balkan, ad est dei lago di Doiran, di fronte ai monti Beles, formidabile, e imponente muraglia di rocce occupata dai bulgari. Un mese dopo lo sbarco dei primo scaglione le nostre truppe erano già in linea. Questo nostro settore che era stato prima, tenuto dalla 57° divisione francese, non era allora molto attivo, ma avevamo una fronte di 48 km. da difendere con due brigate, e non vi erano lavori difensivi; tutto dovette esser creato. Nel breve tempo che lo occupammo Io trasformammo completamente. Furono scavate numerose trincee, stesi reticolati costruite opere difensive di ogni genere, e per dì più il settore fa dotato di una completa rete stradale. Da principio eravamo in collegamento a destra cogli inglesi a sinistra coi Francesi, e oltre, alle posizioni sul Kruscia Balkan, avevamo sostituito i Francesi in alcuni punti avanzati nella, valle fra, quei monti e il Beles. Il Gen. Petitti disapprovò subito questa dislocazione, perchè i posti predetti erano isolati e talmente lontani dal grosso delle forze da non poter essere soccorsi in caso di attacco, ne protetti coll'artiglieria perchè fuori della, portata dei nostri pezzi. Il Sarrail insistette perchè mantenessimo quei posti, ma il nostro comandante chiese ripetutamente di poterli evacuare, tanto più che non rappresentavano alcun vantaggio militare. Finalmente il 17 settembre venne l’autorizzazione e fu subito dato l’ordine di sgombero. Quei posti erano presidiati da un battaglione del 62° fanteria che aveva una compagnia a Gornji Poroj, grosso villaggio ai piedi del Beles e le altre in altri tre punti della vallata. Il giorno fissato per l’evacuazione Gonji Poroj fu attaccato da forze bulgare soverchianti, ma l’attacco era stato provocato da noi per sostenere un attacco che stavano compiendo gli Inglesi in altro settore. La compagnia a Gornji Poroj (la 6°) si trovò di fronte a un battaglione e mezzo di Bulgari, ed ebbe l’ordine di resistere ad oltranza per proteggere la ritirata delle altre tre compagnie, e adempì nobilmente al suo compito. Il fuoco di sbarramento bulgaro impediva l’invio di rinforzi e la compagnia fu ben presto circondata. Continuò a battersi per tutto il pomeriggio e tutta, la notte, e non fu, che 36 ore dopo l’inizio dell'attacco, quando le munizioni erano esaurite, che gli eroici superstiti posero fine alla loro eroica resistenza con una carica. Il comandante del battaglione continuava a sentire ripetutamente nella lontananza il grido di «Savoia» e «Viva l’Italia» senza poter inviare soccorsi. Mancarono all’appello 180 uomini. L' 8a compagnia, rimasta presso la stazione di Poroj (lontana, dal paese) por raccogliere i dispersi fu anch’essa quasi circondata da nemici superiori di forze, ma riuscì ad effettuare il, suo ripiegamento durante la notte. Come scrisse un giornalista inglese, «il primo scontro degli Italiani coi Bulgari era terminato non trionfalmente, ma con tutti gli onori delle armi dalla parte dei nostri Alleati >>. Il Gen. Petitti ebbe occasione ben presto di lamentarsi della condotta del Gen. Sarrail nei nostri riguardi. Come ho detto, avevamo alla nostra sinistra una divisione francese (la 17° coloniale). Il 26 settembre il nostro comando seppe dal Gen. Géromè, senza alcun preavviso dal Comando in capo, che parte di quella, divisione partiva e così pare alcuni altri reparti delle retrovie, i quali avrebbero dovuto servirci di rincalzo. Ci trovammo così col nostro fianco sinistro in aria e senza un solo battaglione di rinforzo più vicino di Salonicco, mentre avevamo di fronte a noi 6 reggimenti bulgari sul Beles e una intera divisione al loro fianco. Il Gen. Sarrail poi voleva persino che noi estendessimo ancora la nostra fronte verso sinistra per sostituire le truppe partenti. Il Gen. Petitti protestò vivamente a Sarrail contro simile condotta, rifiutò di estendere la sua fronte, e ne riferì al nostro Comando, Supremo. La protesta ebbe effetto, e una brigata inglese fu inviata a sostituire Francesi partenti. Ci trovammo ora cogli Inglesi alla nostra sinistra come alla destra. Fin dai primi tempi i rapporti nostri cogli Inglesi erano stati improntati alla più fraterna cordialità. Questa simpatica collaborazione fra gli eserciti dei due popoli si intensificò più tardi sulla fronte italiana, ma non credo che sia stata mai più intima ed affettuosa che in Macedonia, e ciò malgrado gli avvertimenti del Gen. Sarrail al Gen. Petitti. Nei due anni di guerra, in Macedonia non vi fu mai il più piccolo dissidio o attrito fra, noi e gli Inglesi, cosa, che non credo si possa dire di qualsiasi altri due eserciti su quella fronte. Il Gen. Sarrail ebbe dei rimproveri da parte del Comando in capo francese per gli incidenti colla 35a Divisione. Il 2 ottobre egli giunse al nostro comando in Karzumudli col Principe Reggente di Serbia, e due commissari parlamentari francesi, e dopo i soliti convenevoli, si lamentò col Gen. Petitti perchè questi lo aveva fatto rimproverare dal Maresciallo Joffre. Il Gen. Petitti rispose che si era limitato a comunicare al nostro C. S. la protesta che aveva fatto a Sarrail stesso. Questi gli mostrò il telegramma di Joffre il quale diceva di ritenere che Sarrail non aveva mantenuto i legami di buon cameratismo col Petitti, il quale alla sua volta, gli mostrò il proprio telegramma al C. S. Sarrail allora si rivolse al Principe di Serbia e ai parlamentari dicendo: «Dal modo cordiale con cui il Gen. Petitti ci ha ricevuto, potete farvi un'idea dei rapporti che esistono fra noi e del cameratismo che ci lega, e come è stato gonfiato un piccolo incidente». Ciò spiegava la, ragione per lei quale il Sarrail si era, fatto accompagnare a Karamudli dal Principe di Serbia e dai due uomini politici francesi. Le nostre truppe ebbero molto a soffrire per la malaria, essendo il loro settore uno dei peggiori dal punto di vista igienico. La larga valle fra il Krusa Balkan e il Beles, un tempo coltivata dagli abitanti di quei numerosi villaggi, era ora un deserto; abbandonata da quasi due anni, costituiva un terribile focolaio di malaria. Le rive dei laghi di Doiran e Butkova, alle due estremità della valle, sono paludose. Corsi d'acqua colano lenti e melmosi allargando la zona acquitrinosa. I nostri soldati soffrirono molto di malaria, specialmente quelli nelle zone basse presso la pianura, e gran parte dei casi di malaria che si ebbero nel 1917 e 1918 nella zona della Cerna, che è molto meno malarica, erano recidivi dei Krusa Balkan. Fin dalla primavera del 1916 i Bulgaro-Tedeschi erano occupati a fare importanti preparativi per una grande offensiva contro gli Alleati. L'11° divisione bulgara, composta di elementi macedoni non troppo fidati e che disertavano alquanto numerosi, fu sciolta. La fronte di Monastir fu rinforzata con elementi tratti dalla Dobrugia e dalla Macedonia orientale. In primavera vi erano tre divisioni bulgare fra Strumitza, e Xanthi, tre in Dobrugia e cinque nella regione di Monastir, più due tedesche, e in luglio abbiamo la seguente dislocazione: tre divisioni più una brigata di fanteria e una brigata di cavalleria in Dobrugia due brigate e alcuni altri elementi sulla Struma, due bulgare e una tedesca (la 101°, l’unica rimasta in Macedonia) sul Vardar; forze destinate ad assediare il campo trincerato di Salonicco. Nella pianura di Monastir vi era una mossa di manovra composta, di due divisioni di fanteria e tre brigate di cavalleria, in tutto: otto divisioni di fanteria, e una di cavalleria bulgare, una divisione tedesca e una o due turche. L' obbiettivo era una rapida offensiva sulle due ali, collo scopo di tagliare agli Alleati la tirata verso la Grecia o l'Albania obbligando il Gen. Sarrail ad una, battaglia d'assedio e forse alla capitolazione. Mentre dalla ritirata lungo il Vardar fino all'estate del 1916 Sarrail aveva avuto ordine di restare sulla difensiva, adesso che era firmato l'accordo con la Romania sulla sua entrata in guerra, i Governi alleati avevano pensato come si è visto ad un'operazione in Macedonia per dare un appoggio all'esercito romeno e forse tentare di ricongiungersi con esso. La Romania dichiarò la guerra il 28 agosto, ma aveva, chiesto e ottenuto che l'Armata d'Oriente sferrasse un'offensiva dieci giorni prima. Fu invece il nemico che attaccò per il primo. Il Generale Sarrail era ora «Comandante in capo della Armata alleata in Oriente», e il suo comando era il Commadement des Armées alliées, abbreviato in « C. A. A. ». Le truppe francesi alla sua dipendenza erano riunite in una Armata col nome di «Armée francaise d'Orient» (detta comunemente A. F. O.) e comandata dal Gen. Cordonnier. Fu questi che eseguì le operazioni svoltesi nell’estate autunno del 1916. Il 17 agosto i Bulgari passarono il confine greco in due punti, avanzando ad est sino alla foce della Struma e ad ovest verso il lago di Ostrovo, che raggiunsero il 23. Poco dopo occuparono Florina e Banitza, obbligando i Serbi, che difendevano quel settore, a ripiegare su Eksisa e Sorovich. Contro il nemico gli Alleati opponevano le seguenti forze: un po' meno di 200.000 fra Francesi e Inglesi, 120.000 Serbi, 10.000 Russi (giunti in luglio) e 30.000 Italiani (giunti in agosto). L'artiglieria francese contava 346 pezzi, quella, inglese 370: quella serba 284, la nostra 32. Le mitragliatrici erano un più di 1300; la cavalleria circa, 3300 sciabole. In tutto. 360.000 uomini ma in realtà, gli effettivi erano molto ridotti a causa delle malaria, e la difficoltà, delle comunicazioni, onde appena la, metà di quel totale era disponibile. Di un grande vantaggio godeva, il nemico in confronto degli Alleati l’unità di comando reale ed effettiva. Mentre la grande maggioranza delle truppe erano bulgare, il comando in capo era tedesco ed era esercitato senza discussione. Gli Alleati invece non accettarono il comando unico, quello dei Gen. Sarrail, che nel luglio 1916, e anche allora a malincuore. I comandanti alleati subordinati non avevano fiducia nelle qualità militari di Sarrail e diffidavano soprattutto della, sua tendenza al meschino intrigo politico. Perciò egli non potè mai esercitare con l'autorità assoluta che è condizione indispensabile al successo. II nostro corpo di spedizione dipendeva, dal Gen. Sarrail, ma per le questioni di grande importanza, come, lo spostamento della divisione o di parte di essa, l’estensione della fronte, ecc., occorreva il consenso del nostro Comando Supremo. Tutto questo naturalmente, intralciava lo svolgimento delle operazioni e il Gen. Sarrail se ne lamentò amaramente, nelle sue memorie, ma era, dovuto ai suoi difetti riconosciuti da tutti. L’avanzata, dei Bulgari nella regione di Monastir per un momento fece sembrare la situazione degli Alleati realmente critica, se il nemico fosse riuscito a sfondare la linea dei monti a nord di Vodena non vi sarebbe stato più nulla ad arrestare la sua discesa nella pianura e quindi la sua penetrazione in Grecia. Gli Alleati avrebbero dovuto restare assediati nel campo trincerato di Salonicco. Man mano che avanzava il nemico si andava esaurendo, mentre i Serbi ritirandosi venivano rinforzati. Il punto critico era il lago di Ostrovo; il 22 agosto la, sinistra serba respinse cinque successivi attacchi sull’altura ad ovest del lago fra la pianura di Kajalar ed il bacino di Rudnik, e fu poi rinforzata da parte della 156° divisione francese. Gli Alleati si preparano quindi alla controffensiva, che doveva anche portar aiuto ai Romeni entrati da poco in guerra. Fin dal 25 agosto si ebbe un primo incidente anglo-francese. II Gen. Cordonnier aveva chiesto al Gen. Sarrail che la divisione francese che era sul Vardar alla dipendenza del comando inglese, fosse messa a sua disposizione per le prossime operazioni verso Monastir. Il Gen. Sarrail non potendo dare un ordine al Gen. Milne si limitò a giragli la domanda, ma il Milne acconsentì solo alla partenza di un reggimento francese. Alla stessa epoca, Cordonnier, avendo messo delle batterie francesi a disposizione dei serbi, a loro richiesta vi mandò un generale francese come comandante. Questo fatto suscitò vive proteste al Q. G. serbo di Salonicco che vi vedeva una menomazione della propria, autonomia, e il generale d’artiglieria francese dovette contentarsi del titolo di «consigliere». Compito degli Inglesi e degli Italiani nel settore orientale era di sorvegliare il nemico e tenerlo occupato con azioni dimostrative, mentre i Serbi avevano per obbiettivo i monti Malka Nidze e Kaimakcialan, e i Francesi e i Russi sotto Cordonnier dovevano attaccare i Bulgari di fianco più ad ovest. L' ordine di attacco fu dato per il 12 settembre sul settore ovest, ma vi furono grandi difficoltà nell'eseguirlo perchè la distanza da Verria, dove erano le riserve, era grande e fu assai arduo l’adunarle perchè fossero a disposizione di Cordonnier. Il 13 settembre i Serbi avanzano attaccando, e occupano il Malka Nidze e Orehovo, catturando 25 cannoni, la 156° divisione francese avanza da Kajalar e Rudnik verso Banitza, i Russi verso la Neretzka e la, 57° divisione francese coi due reggimenti di Casseurs d'Afrique verso Kastoria. Il 17 i Francesi e Russi occupano l'Florina, e i Serbi, dopo di aver cacciato i Bulgari dalle brulle e fosche alture di Gornicevo, colle fra il lago di Ostrovo e la piana di Monasti, li attaccano con feroce energia sul Kaimakcialan. I Bulgari si difendono accanitamente, ma i Serbi, avendo l’incentivo di voler strappar loro a forza, il primo lembo della patria invasa, dopo una lunga lotti catturano le posizioni. Solo un centinaio di Bulgari furono fatti prigionieri; gli altri difensori erano tutti morti. Al 20 settembre i Bulgari difendevano ancora una linea a Sud di Monastir, passando per Kenali e lungo Ia riva nord della Cerna i Franco-Serbi avevano ordine da Sarrail di attaccare di nuovo, ma furono respinti causa la mancata preparazione di artiglieria. Sarrail voleva solamente, ottenere un successo clamoroso, e ordina il 28 un nuovo attacco per il 2 ottobre, nella pianura, a sud di Monastir. Il Generale Cordonnier, dopo aver visitato i suoi diplomatici e il Gen. Diestrich comandante della brigata russa, rispose che per lo stato di esaurimento in cui si trovavano le truppe era impossibile pretendere da loro questo nuovo sforzo presto. Ma Serrail sempre comandando dal suo ufficio di Salonicco, reiterò l'ordine. La data fu rimandata di qualche giorno, poi anticipata di nuovo, obbligando lo Stato Maggiore a compiere una fatica, improba per far fronte a tutti questi cambiamenti. Finalmente l’attacco franco-russo fu sferrato il 3 ottobre, ma, non ebbe altro esito che di costare numerose perdite senza registrare alcuna avanzata importante. Ma la resa di un battaglione bulgaro avendo convinto Sarrail che il morale nemico era molto depresso, egli ordinò un nuovo attacco che ebbe luogo il 14. Non conseguì però miglior successo e costò altre 1.500 perdite ai Francesi. Sarrail si recò allora al Q. G. di Cordornnier e alla presenza di vani ufficiali inferiori di grado e di ufficiali esteri, fece una scenata violenta ai comandante dell’A. F. O., dicendogli che solo i Serbi avevano concluso qualche cosa e rifiutando di ascoltare le sue giustificazioni. Il Gen. Dietrich scrisse una lettera protestando contro gli ordini di attacco, diretta a Cordornnier, ma intesa per Sarrail, e ne inviò copia al Governo russo. Il Gen. Petitti aveva voluto che la 35° divisione non rimanesse inattiva durante queste operazioni. In ottobre era giunta Ia brigata Ivrea (161° e 162° fanteria), comandata dal Gen. Beltramo, con un secondo squadrone del Lucca e altri reparti che portarono i nostri effettivi a più di 50.000 uomini. Il Gen Sarrail chiese ora al Gen. Petitti se preferiva estendere la sua fronte verso sinistra, oppure, derogando, al principio che la divisione non doveva scindersi, inviare una brigata a partecipare alle operazioni nella zona di Monastir. Per ragioni politiche, ossia per rendere più efficace la nostra, collaborazione, anche perchè prevedeva che l’estensione della fronte sarebbe fatta senza riguardo alle forze disponibili, il Gen. Petitti preferì la seconda proposta. Chiesta e ottenuta l’autorizzazione dal C.S. egli inviò la brigata Cagliari con uno squadrone di cavalleria e delle batterie da montagna verso Monastir. Si potè allora constatare quanto fosse pessimo Io stato delle comunicazioni in Macedonia. La ferrovia Salonicco-Monastir era di scarsissimo rendimento, e non potemmo avere che tre treni di 20 carri aI giorno poi nostri trasporti. Il movimento cominciò il 22 ottobre, e il comando ebbe ordine di avanzare da Eksisu il 7 novembre, ma non essendo giunti ancora tutti i servizi non si potè iniziare la marcia che l’11. Quando giunse in Macedonia, il Gen. Roque, Ministro della Guerra francese, parlava dell'invio di nuovi importanti contingenti di truppe, ma il Gen. Petitti gli fece giustamente osservare che nelle condizioni di viabilità, essi sarebbero stati immobilizzati e inutilizzabili. Compito della, brigata Cagliari era, di dare il cambio, il 14 novembre, alla brigata di sinistra, della 57° divisione francese e di avanzare lungo la cresta dei Monti, Baba a Sud-Ovest di Monastir verso Kicevo e Gradesnitza. Una colonna francese doveva, avanzare parallelamente ai nostri, a metà, costa, mentre il gruppo franco-russo avanzava nella pianura direttamente contro Monastir. Alla destra i Serbi operavamo nella zona Kaimakcialan-ansa della Cerna. La nostra avanzata era durissima, poichè la brigata Cagliari doveva, oltrechè vincere l'aspra resistenza nemica, lottare contro le tormente di neve in un terreno arduo quanto mai a circa 2000 m sopra il mare. La brigata, aveva una fronte di attacco di 12 km e avanza lentamente guadagnando terreno a passo a passo in mezzo ad altissime nevi. Il 18 è occupato il colle di Ostretz, il 19 il 63° conquista il «Dente» di Velusina e occupa q. 2209. Intanto i Serbi avevano compiuto importanti avanzate all’estrema destra. Il 31 ottobre sono a Tepavci nell'ansa della Cerna (nostro futuro Q. G.), il 2 novembre Jaratok, il 5 su quota 1378, punto culminante della parte meridionale dell'ansa. Al centro i Franco-Russi avanzano combattendo e spezzando la linea di Kenali. Ma i Tedesco-Bulgari offrono maggior resistenza, e il 14 respingono con forti perdite un attacco degli Alleati. La perdita di q. 1378 e avanzata italiana sul Baba, minacciano però tutte le posizioni nemiche intorno a Monastir che oramai non sono più sostenibili. Il 15 i Bulgari abbandonano le loro linee, e poco dopo evacuano Monastir. Il 19 vi penetra un plotone di cavalleria francese seguito dai resto della colonna franco-russa. Intanto la brigata Cagliari e i Francesi alla sua destra dovevano spingere innanzi verso Tzervena Stena per catturare le posizioni a N.O. di Monastir. Infatti il 21 il 63° di fanteria vinta la resistenza nemica, cattura Bratindol. Ma la colonna Francese a metà corsa invece di continuare la sua avanzata parallelamente verso Tzervena Stena effettua una conversione a destra ed entra anch’essa a Monastir dove non doveva andare. Ciò obbliga la Cagliari a deviare pure verso Monastir non potendo avanzare con il fianco destro oltrechè sinistro scoperto. I nostri rimasero quindi delusi di non aver potuto partecipare direttamente alla presa di Monastir, cui avevano grandemente contribuito, ne sloggiare il nemico dalle posizioni che dominavano la città a nord, e ciò non per colpa propria. Venne poi un ordine dei Comando in capo sospendendo l’ulteriore avanzata da Monastir, e i Francesi, che avevano occupato alcune alture a 5 km da essa, non si spinsero più in là. Questa breve sosta ridiede coraggio al nemico, che era stato in, piena ritirata verso Prilep, ma, ora, ritornò indietro e rioccupò alcune importanti posizioni sulla quota 1248; di là riprese a bombardare Monastir che rimase sotto il tiro fino offensiva del settembre 1918. La cattiva stagione e il fatto che i Romeni erano stati completamente battuti, onde non era più possibile soccorrerli indussero i Governi dell'Intesa a sospendere le operazioni. Le truppe italiane entrarono in Monastir poco dopo la sua occupazione e fa allora che il Gen. Petitti, il Generale di brigata Desenzani e alcuni altri ufficiali e soldati furono feriti dallo scoppio di una granata presso il R. Consolato e il Magg. Tamajo, comandante del genio, fu ucciso. I Serbi avanzavano sempre combattendo di vetta in vetta, e avevano anche catturato la quota 1050, destinata a divenire così famosa, ma, stanchi ed esausti per il lungo lottare e marciare, non poterono mantenervisi di fronte ai contrattacchi nemici e la cima più alta fu perduta. Una loro armata era ridotta da 444.000 a 6000 uomini, ed essi non erano più in grado di tare altri sforzi. Il 21 novembre il Gen. Sarrail venne a visitare il Gen. Petitti all’ospedale a Salonicco, e gli annunziò che tutto il corpo di spedizione italiano doveva esser sostituito sui Kruska Balkan dagli inglesi e quindi trasferirsi nella regione di Monastir. Questo trasferimento diede modo di constatare ancora di più la cattiva organizzazione del Comando in Capo. Gli Inglesi furono inviato nel nostro settore senza preavviso onde gli italiani non erano ancora partiti, e le disposizioni per il movimento delle truppe erano assai difettose, onde il nostro comando e soprattutto la nostra intendenza dovettero compiere un lavoro enorme per far fronte a deficienze non proprie. La marcia fu durissima, soprattutto per la, mancanza di strade, i villaggi distrutti, e le inondazioni che, specialmente fra Sarigol e Naresh e fra Topsin e Vertekop, erano state gravissime. Per delle settimane intere i nostri soldati non dormirono all'asciutto. Persino le prolunghe di cavalleria non potevano transitare e dovettero esser sostituite con carrette da battaglione. Si racconta che un soldato automobilista fu visto dai suoi compagni sepolto fino, al collo, e mentre essi cercavano di venire in suo aiuto, egli disse allegramente: «Non c' è pericolo ho i piedi sulla capote del mio autocarro»! In questo periodo vi erano timori di un attacco da parte dei Greci, e il Gen. Sarrail volle inviare delle truppe verso il sud per difendere i varchi da una possibile invasione della Tessagli. Chiese quindi al Gen. Petitti di dirigere le due brigate della 35° divisione su Verria anzichè su Vertekop. Il Gen. Petitti acconsentì, sebbene il movimento si presentasse difficilissimo perle condizioni di viabilità. Le informazioni del C. A. A. risultarono assolutamente errate, e gli ordini e i contrordini si susseguivano a getto continuo. Finalmente il 12 dicembre, il Gen. Sarrail ordinò il concentramento di tutta la divisione a Negociani (15 km ad E. di Monastir), perché si temeva un contrattacco nemico, essendo giunta notizia dell'arrivo di una divisione tedesca a Prilep. Il movimento fu eseguito, e il 18 Sarrail ordinò che le nostre truppe sostituissero i Francesi nella zona immediatamente a nord di Monastir. A questa nuova destinazione il Gen. Petitti sollevò delle obbiezioni. In primo luogo le sue truppe, in marcia senza tregua fin dai primi del mese, coi servizi completamente disorganizzati a causa del confusionismo del Comando in Capo, avevano assoluto bisogno di riposo. La brigata Cagliari soprattutto era esausta per la lunga ed asprissima lotta in mezzo alle nevi dei Baba. Per la difesa di Monastir, che era uno dei settori più delicati di tutta la fronte, occorreva avere almeno una brigata come riserva di manovra, e a ciò la 35° divisione non era in grado di provvedere. Per di più bisognava fosse risolta la questione delle artiglierie da campagna e di medio calibro da assegnarsi al nostro corpo di spedizione. «Non intendo», scrisse il Gen. Petitti al Gen. Sarrail, «di assumere la responsabilità della presa, di Monastir se non sono messo in condizioni da poterlo fare con almeno con probabilità di successo; non intendo sacrificare le mie truppe e l'onore dei mio esercito, esponendomi a un rovescio quasi sicuro, perchè poi, si possa dire che gli italiano non hanno saputo tenere quello che gli altri avevano saputo conquistare. In sostanza gli non aveva alcuna fiducia che il Gen. Sarrail gli avrebbe messo a disposizione i mezzi necessari per difendere Monastir, e credeva che egli volesse sbarazzarsi dell'incomodo compito affidandolo a noi, per poter così lavarsi le mani di ogni responsabilità qualora il nemico fosse riuscito a riconquistare la città. La base vera delle obbiezioni del nostro comando era la mancanza di fiducia nella lealtà, e nelle qualità, militari del Gen. Sarrail. Il 19 dicembre Sarrail andò di nuovo a trovare Petitti allo spedale, e gli disse di scegliere lui il suo settore impegnandosi assegnargli due gruppi da 75 di artiglieria di medio calibro che già si trovava nel settore prescelto, e a lasciar in seconda linea la divisione che la 35° avrebbe sostituito in prima linee, finchè non fosse necessario impegnarla per circostanze eccezionali. Dopo il Gen. Petitti si recò a Florina e, d'accordo col Gen. Leblois, nuovo comandante dell'A. F. O., in sostituzione del Gen. Cordonnier rimpatriato, scelse come settore la parte occidentale dell'ansa della Cerna da Novak a Makovo, scelta che fu approvata dal Gen. Sarrail. Siccome la 35° divisione rimarrebbe ora incuneata fra truppe dell'A. F.O., lo stesso Petitti propose di esser messo alla dipendenza tattica di quel Comando. La nostra divisione quindi sostituì una divisione e mezza francese e una serba. Nel mese di dicembre l’intero corpo di spedizione era a posto nell' ansa della Cerna (salvo i reparti alla base di Salonicco e lungo le vie di comunicazione), e colà vi rimase fino al 1918, salvo lievi rettificazioni della linea. Dopo l’occupazione di Monastir, la dislocazione alleata si stabilizzò su detta linea. Da Ersèk, dove si era operato un collegamento colle nostre truppe d'Albania fino Cerna (est) si stendeva A. R. O. Questa comprendeva ora sette divisioni francesi, ossia la 30°, la 57° la 76', la 156° e l’11 coloniale, le due brigate russe che poi furono fuse in una divisione, la 35° divisione italiana, la 16° e 17° divisioni coloniali. Le due brigate russe, che per breve tempo furono nell'ansa della Cerna, si trasferirono una, sulle due rive dei lago di Prespa e una ad est della Cena. Più tardi si riunirono in una divisione nel settore dei lago Prespa dove rimasero fino a consumazione. Le divisioni 16° e 17° erano alla nostra, destra nell'ansa della Cerna. Fra la Cerna e i pressi di Nonte vi erano le tre armate serbe, ridotte poi a, due. Fra Nonte e il Vandar vi era la 122° divisione francese cui si dovevano aggiungere più tardi una, poi due e infine tre divisioni greche. L' A. F. O. si divideva in due gruppi di divisioni (equivalenti a corpi d'armata), uno nell'ansa della Cerna (compresa, la nostra 35°), uno fra la Cerna e l'Albania, la 122° colle divisioni greche formarono poi il cosiddetto 1° gruppo di divisioni. Fra il Vardar e il mare era il settore inglese, il XII Corpo d'Armata (divisioni 10°, 22° e 26°) fino a Butkova, e poi il XVI (divisioni 27°, 28° e 60°). Vi erano inoltre la 228° brigata presidiaria e due brigate di cavalleria. Le divisioni e 60a e le brigate di cavalleria furono trasferite nell’estate del 1917 dalla Macedonia in Palestina. Le artiglierie di medio e grosso calibro erano tutte francesi inglesi, e nel P A. F. O. tutta l’artiglieria era francese salvo le batterie da montagna italiane, e più tardi quelle greche. Alla nostra divisione era stata assegnati una dotazione fissa di artiglieria da campagna e di medio calibro francese, che era però sotto gli ordini del nostro comando d’artiglieria. Altra artiglieria di medio e grosso calibro, che era d'armata, veniva assegnata al nostro settore quando ve n'era bisogno. Gli effettivi Alleati ai primi del 1917 erano all'incirca i seguenti: francesi uomini 210.000 fucili 50.000 inglesi uomini 180.000 fucili 50.000 italiani uomini 55.000 fucili 18.000 serbi uomini 152.000 fucili 80.000
Si vede dalla predetta, dislocazione come il Gen. Sarrail cercasse di distribuire le truppe in modo da avere elementi francesi incastrati tra quelli di altre nazionalità. Così i russi divisi dapprima, in due gruppi separati, si trovarono fra due francesi, la 35° divisione era pure fra due divisioni francesi, truppe francesi separavano gli Italiani dai serbi e questi dagli Inglesi e dai Greci. Egli sapevi di non godere sufficiente prestigio presso gli altri Alleati da, poterne disporre come voleva, onde teneva le truppe francesi sparse un po' dappertutto, e diceva, che agiva così anche per impedire possibili dissidi fra Alleati incompatibili. Ma con tutto ciò non riuscì mai ad avere intero esercito d' Oriente sottomano, e per ogni operazione in comune o spostamento di unità occorrevano trattative diplomatiche, in cui intervenivano i vari Governi interessati e decidevano non sempre in conformità ai desideri di Sarrail. Il Gen. Leblois comandò A. F. O. per breve tempo e fu poi sostituito dal Gen. Grossetti, ottimo ufficiale col quale il nostro comandante ebbe sempre i migliori rapporti. Disgraziatamente si ammalò e dovette tornare in Francia dove morì. Gli successe interinalmente il Gen. Régnault e poi il Gen. Henrys, che tenne il Comando fino alla fine della guerra. Anche con lui il nostro comando ebbe sempre relazioni cordiali. Di fronte agli Alleati vi era l’esercito nemico d' Oriente, sotto un comandante in capo tedesco, il Gen. von Scholtz, con Q. G. a Uskub e uno S. M. pure tedesco. Nei primi tempi della campagna, fino a dopo la perdita di Monastir, l’esercito comprendeva varie divisioni tedesche, due turche e alcuni battaglioni austriaci. Ma a poco per volta le unità tedesche furono ritirate, salvo lo S. M. del comando in capo, quello di una Armata, di due corpi d'armata e di una divisione, alcuni battaglioni di fanteria (dapprima una ventina, poi ridotti a tre o quattro), le artiglierie, e alcuni distaccamenti di specialisti (aviazione, genio, mitraglieri, bombardieri, ecc.). Le divisioni turche furono pure ritirate, salvo il 177° reggimento che rimase fino ai primi dei 1918. Vari battaglioni austriaci rimasero nel settore ad ovest del lago d'Ochrida; alcuni dipendevano dal comando macedone, mentre altri, pure essendo di fronte ad elementi delle Armate Alleate di Macedonia, appartenevano all'Armata austriaca d'Albania tutto il resto della fanteria era composto di elementi bulgari. Dal lago d'Ochrida alla Mala Rupa (ad est di Nonte) era il settore della Cosiddetta Armata tedesca (tedesca, come ho detto, di nome e di comando, ma composta quasi interamente di truppe bulgare), con Q. G. a Prilep e comandata dal Gen. von Steuben. Era divisa in due corpi d’armata il 61° e 62° tedeschi che si collegavano al ramo ovest della Cerna. Il 61° comprendeva alcuni elementi austriaci, la divisione mista bulgara, la 4°, la 1° e la 6° divisione bulgara. Il 62° corpo comprendeva la 301° divisione tedesca, con alcuni battaglioni tedeschi e varie unità, bulgare. Esso occupava tutta l’ansa della Cerna di fronte alla nostra divisione e alle due divisioni coloniali francesi. Più ad est venivano le divisioni bulgare 2° e 3°. Dalla Mala Rupa ad un punto sul Beles di fronte a Dova Tepe (ad est del lago di Doiran era dislocata la, la armata bulgara, composta delle divisioni 5°, 9° e di montagna. Da Dova Tepe al mare vi era la II Armata bulgara (comandata dal Gen. Lukoff) con elementi della IV Armata. La II comprendeva le divisioni 11°, 7°, 9° e 10°. Lungo la costa dell' Egeo fino al fiume Mesta vi era il gruppo della difesa costiera. La II Armata era notoriamente indipendente dal comando tedesco, ma in pratica, era come tutto l'esercito bulgaro, alla completa disposizione dei Tedeschi. Il comandante in capo bulgaro era il Gen. Gekoff. Il totale degli effettivi nemici giunse ad essere dai 600.000 agli 800.000. Il numero dei battaglioni era leggermente inferiore a quello degli Alleati, ma erano battaglioni più forti, e mentre ogni complemento alleato doveva venir trasportato per via di mare con gravi difficoltà e rischi ancora più gravi, il nemico aveva suoi depositi a portata di mano. La Germania e l'Austria poi, fino al principio del 1918, erano sempre in grado di inviare rinforzi nei Balcani con molta maggior facilità e celerità di quello che non potessimo fare noi. Anche la Turchia, avrebbe potuto inviare rinforzi per ferrovia, alla fronte macedone. Ma la Germania non volle valersi, di questo aiuto perchè i Bulgari erano gelosi della collaborazione turca in Macedonia: terra fino a poco fa turca. In artiglieria da campagna e montagna il nemico aveva un numero di pezzi leggermente inferiore a quello degli alleati, ma era molto più forte in medi e grossi calibri, aveva poi dei pezzi di calibro e portata assai superiori a qualsiasi pezzo dalla parte nostra, e teneva fornita la fronte macedone della sua migliore artiglieria. Mentre gli Alleati la trascuravano le difese nemiche, rudimentali nei primi tempi, a poco a poco si perfezionarono sì da diventare un complesso di fortificazioni formidabili, specialmente nei settori di Monastir, della quota 1050 e del lago di Doiran. Nel settore serbo e in alcuni altri le difese erano meno ma le posizioni naturali erano colà, come del resto su quasi tutta la fronte, infinitamente superiori alle nostre." Nel nostro settore, come vedremo, le creste erano tutte in mano al nemico, e gran parte delle nostre retrovie erano dominate; lo stesso avveniva di fronte alla II Armata serba (regione Dobropolje-Vetrenik), e di fronte agli Inglesi ad ovest del lago Doiran. Bisogna sempre tener presente che la guerra in Macedonia, per il carattere del territorio in cui si svolgevano le operazioni, la mancanza di ferrovie, di strade e di risorse, il clima micidiale, la scarsa popolazione e la lontananza dei nostri centri di rifornimento, era una guerra coloniale. Ma i Tedeschi e i Bulgari inquadrati e istruiti dai Tedeschi disponevano di tutti i mezzi della guerra moderna. Nei primi tempi il Comando in Capo alleato non disponeva neanche di ufficiali di S. M. che conoscessero bene la guerra moderna, e i mezzi che l’esercito riceveva dall' Europa erano mezzi di scarto. Il C. A. A. non valutò sufficientemente queste difficoltà.
Gli italiani: Le retrovie
Come ho detto, il nostro corpo di spedizione giunse in macedonia nell’agosto del 1916; dopo una breve sosta a Salonicco si trasferì sui monti Krusa Balkan presso il lago di Doiran, e poi nell’ansa della Cerna, dove rimase fino all’offensiva del settembre 1918. A Salonicco si istituì la Base italiana che più tardi si trasformò in Ufficio Staccato dell'Intendenza Albania-Macedonia di Taranto (detto nel, solito linguaggio a iniziali U. S. I. A. M.), diretto prima da un capitano con un ufficiale addetto, poi man mano ingrandito fino a divenire una piccola Intendenza generale con a capo un tenente colonnello di S. M. assistito da numerosi ufficiali superiori e inferiori. Vi era pure la direzione di sanità, quella di commissariato, il comando del genio, i magazzini d' artiglieria e genio, l'autoreparto, numerosi magazzini e deposito munizioni, il Comando» di presidio e quello di tappa, il Tribunale di guerra, il campo convalescenziario, il deposito rifornimento quadrupedi, ecc. Parte di questi stabilimenti erano a Zeitenlik, 4 o 5 km da Salonicco. Alla periferia, della città vi erano tre ospedali militari italiani, di cui uno era l’antico speciale civile italiano, ingrandito e militarizzato, gli altri due creati appositamente. La nostra base aveva dovuto impiantarsi in condizioni assai infelici, poichè quando giungemmo a Salonicco le scarse risorse del paese erano state già quasi tutte accaparrate dai Francesi e dagli Inglesi stabiliti in Macedonia da 10 mesi, onde dovemmo contentarci dei rimasugli. Dato il numero più piccolo del nostro contingente non potemmo creare molte istituzioni che avrebbero grandemente contribuito al benessere degli ufficiali e truppa, oltrechè alla nostra dignità nazionale. Fummo obbligati a ricorrere continuamente fornitori locali, gente senza patria che non avevano altra preoccupazione che di arricchirsi col nostro esercito. Alle volte li abbiamo trattati troppo coi guanti, per debolezza di qualche ufficiale, ma possiamo dire con fierezza che non vi furono mai scandali finanziari relativi alle nostro truppe in Oriente come ve ne furono in qualche altro esercito alleato. La nostra inferiorità, dipendeva in parte dal fatto che non avevamo che pochissimi ufficiali forniti di esperienza delle cose d'Oriente, come ne avevano invece in abbondanza gli Inglesi e i Francesi. Ciò nonostante, riuscimmo ad impiantare una base che per molti rispetti era un modello, e i nostri soldati colla loro straordinaria ingegnosità riuscivano a sopperire a tutte le altre deficienze materiali. Quando accompagnai un colonnello medico inglese a visitare uno dei nostri speciali, egli rimase addirittura meravigliato di quel che i soldati italiani avevano saputo creare dal nulla. Essi mostravano poi un amore al lavoro che destava ammirazione in tutti. Quando lasciammo la fronte del Kruscia, Balkan, dove ci sostituirono gli Inglesi, vi era un ponte iniziato dai nostri, ma non ancora terminato la, squadra adibita al lavoro. chiese ed ottenne di rimanere per terminarlo perchè temeva, che successori inglesi non l'avrebbero fatto come essa intendeva! Lodevolissima era la nostra disciplina delle retrovie. In tutta quella babele di eserciti differenti a Salonicco, i nostri grigio-verde si distinsero sempre per il loro contegno corretto, la loro serietà, e l’assenza quasi completa di alcoolismo. Nè si vedeva mai alcun ufficiale italiano partecipare alle indecenti baldorie della Torre Bianca e degli altri ritrovi notturni. Si deve però muovere un appunto a chi sceglieva gli ufficiali destinati alla Macedonia nel non aver fatto una selezione un po' più rigorosa, nel senso che non avrebbero dovuto inviarvi che quelli più colti, più fini e più gentlemen. Mentre moltissimi corrispondevano a questi requisiti, ciò non si poteva dire di tutti. Se non si ubbriacavano mai, alcuni non risultarono però all’altezza per carattere e educazione. I Francesi incorsero nello stesso errore, e anzi inviarono all'Armata, d' Oriente non pochi ufficiali in punizione, Non furono che gli Inglesi, che, come ho detto, misero un impegno speciale a mandare in Macedonia, specialmente pei comandi, quel che avevano di meglio. Se questa considerazione delle qualità di carattere ed educazione é un difetto generale di tutto il nostro ordinamento militare e burocratico, nel caso della spedizione di Macedonia si avrebbe dovuto fare uno sforzo eccezionale di selezione, trattandosi di ufficiali che dovevano venire a continuo, contatto coi colleghi di altri eserciti. Per l’ottima organizzazione della nostra base e delle retrovie va attribuito merito speciale al Maggiore di S. M. (ora Colonnello) Fenoglietto, il quale in mezzo a tutta la baraonda macedone non perse mai la testa e riuscì sempre a conciliare tendenze opposte; e caratteri difficili, evitando ogni attrito o incidente spiacevole. La nostra, Intendenza aveva i suoi uffici presso la piazza d'Armi, in un gruppo di casette in parte già esistenti e accomodate dai nostri soldati, e in parte fabbricate da essi ex novo. Più tardi vi si costruì anche la mensa ufficiali con alloggi. Altri uffici e magazzini erano sparsi per la città. Nel quartiere detto delle campagne occupavamo anche il grande e bel fabbricato della scuola commerciale romena, messo a nostra disposizione dal Console di Romania; ivi era un'altra mensa con numerosi alloggi per ufficiali, scuderie, ecc. Ma il grosso dei nostri magazzini era a Zeitenlik, dove erano anche numerosi stabilimenti militari francesi. Prima della venuta degli Alleati erano colà, su un terreno leggermente in collina, alcuni miserabili villaggi — Zeitenlik, Harmankeui, ecc. A poco a poco la zona si popolò di tende, baracche, depositi, parchi d’ogni genere, in modo da formare una vasta città militare che si estendeva sempre più. Qua e la sorgeva qualche fabbricato pre-esistente una caserma turca, una moschea, una chiesa dei cimiteri. Ma erano perduti nel mare di tende e di baracche. Mentre prima non attingeva acqua che da qualche, sudicio rigagnolo o dai pozzi primitivi dei villaggi turchi, col sorgere della città militare si scavarono canalizzazioni e pozzi artesiani in modo da dotare tutti gli accampamenti di abbondante e ottima acqua. I sentieri di fango o di polvere ben presto furono trasformati in larghi viali solidamente imbrecciati, ma purtroppo non esenti ne dalla mota ne dalla polvere. Qui avevamo i nostri accampamenti per le truppe di passaggio, il convalescenziario, il deposito rifornimento quadrupedi, infermeria cavalli, il deposito munizioni, la lavanderia, i forni, ecc. Nulla vi mancava, ma bisogna ricordare che Salonicco era la nostra unica base per rifornire un esercito di oltre 50.000 uomini anche quando fa aperta, la strada, di Santi Quaranta e i complementi e i licenziandi cominciarono a passare per essa, tutto il rifornimento di viveri, vestiario, munizioni e materiali d'ogni genere continuava a giungere via Salonicco, ed era Zeitenlik che si concentrava tutto ciò che le navi scaricavano. Non esisteva su tutta la fronte in Italia una divisione, neanche un corpo d'armata, le cui prime linee fossero così lontane dalla base come la 35° Divisione. Da Salonicco alla quota 1050 erano ben 170 km, e il percorso doveva farsi o per la ferrovia di Monastir, che serviva ad alimentare anche sette divisioni francesi, tutto l’esercito serbo e a diverse epoche alcune unità russe e greche, oppure per la strada ordinaria, che pure serviva in parte a rifornire le stesse unità. Il viaggio in ferrovia non era certo un'esperienza piacevole; si passava una nottata, in un vagone lurido, spesso ravvivato da cimici, nel buio più perfetto, coi vetri rotti ed i cuscini lacerati. Questo lussuoso convoglio ci conduceva fino a, Armenohor (la stazione per Florina), onde si terminava il viaggio in camion. Ma era più interessante fare tutto il percorso in camion o in automobile, oltrechè assai più comodo e rapido. Una, volta usciti dalle strette e mal lastricate strade di Salonicco si infila la larga e polverosissima strada di Monastir, sormontando i duri ostacoli offerti dalle infinite buche. A destra e sinistra si stendono i vasti magazzini inglesi che non sembrano mai finire. Passate le ultime baracche si traversa la ampia e deserta pianura del Vardar, una sterminata estensione di terreno, in parte acquitrinosa e pochissimo coltivata, chiusa nord-ovest dai monti dietro Vodena. I grandi pascoli e le argentee chiazze d'acqua, collo sfondo dei monti azzurri lontani, ricordano' la campagna Romana, ma su scala più vasta, meno abitata e priva di quelle maestose rovine e quei torrioni medievali che rendono così suggestivo l'Agro di Roma e gli danno quel senso di vitalità che deriva dai ricordi del passato. Anche qui vi sarebbero ricordi storici in abbondanza, poichè vi fiorirono splendide civiltà, ma le innumerevoli invasioni barbariche che devastarono la Macedonia ne hanno fatto scomparire quasi ogni traccia, bisognerebbe scavare per ritrovare qualche resto dell’antichità. Qua e là, a rari intervalli qualche villaggio di misere casupole di mota, questo col minareto, quello con la chiesa seconda, che è abitato da Mussulmani o Cristiani. Case isolate non se ne vedono; la paura, dei brigantaggio rendeva, impossibile l’esistenza nelle campagne — solo la guerra, che ha, dato la tranquillità e l’ordine a questo paese! L'unica oasi di civiltà, agricola è Ia bella fattoria di Topsni sul Vardar proprietà di un ricco e intraprendente uomo d’affari italiano, Cav. Giacobbe Modiano, il quale ha voluto tentare un esperimento di azienda agricola moderna. Sulla sua vasta tenuta ha costruito dei bei fabbricati, introdotto macchine agricole e sistemi d'agricoltura scientifica. I risultati dapprima furono poichè il terreno è straordinariamente fertile; basta lavorarlo intelligentemente per ricavarne meravigliosi raccolti. Ma, le tre guerre balcaniche, le requisizioni non pagate e occupazione militare hanno creato gravi ostacoli allo sviluppo dell'azienda, quale potrà, certo riprendere se il paese avrà, tranquillità duratura. Lungo la strada, à intervalli regolari, sorgono dei tumuli di diversa forma e dimensioni, sulla cui origine molto si è discusso. Sono evidentemente artificiali; secondo gli uni sarebbero tombe preistoriche, secondo altri posti di segnalazione, mentre una terza teoria li ritiene fortezze. E sembra probabile che quelli più grandi fossero antichi forti, ma ciò non esclude che fossero anche tombe, mentre quelli più piccoli servivano forse per i segnali. Scavi fatti finora han dato magri risultati; vi sono stati trovati frammenti di terrecotte di qualche interesse puramente archeologico, ma se contenevano oggetti più preziosi furono certamente trafugati nel corso dei secoli. Poco prima di Jenidze-Vardar si incontra una strana costruzione a destra della, strada: vi sono grossi muri e blocchi di pietra in cui sono incastrati tubi di ferro, d'onde sgorga una abbondante fonte. Si chiama popolarmente la fontana di Alessandro e infatti è sul sito dell’antica Pella la capitale di Alessandro Magno; a poca distanza in mezzo ai campi si scorgono gli archi rovinati di un antico acquedotto. La fontana è stata, ripristinata dalle, truppe alleate e serviva ad abbeverare le Colonne di cavalli e muli che vi passano continuamente. La fontana era probabilmente sulla piazza principale della città, e vi avranno fatto l’abbeverata i cavalli del grande Macedone come la, fanno ora quelli dei Cavalleggeri di Lucca, degli Spabis Marocchini, delle Salmerie dell'A.F.O. Ogni tanto la nostra automobile è fermata da una sentinella, senegalese, ma quando vede che essa contiene solo militari alleati ci lascia proseguire. Poco dopo la fontana, di Alessandro giungiamo ai Jenidze-Vardar. E’ un grosso paese, l'unico di qualche importanza, lungo gli 85 km fra Salonicco e Vodena, adagiato sa una cresta declinante verso la strada, molto orientale, pittoresco, sporco in istato di assoluto abbandono. Le botteghe aperte, colle loro povere mercanzie sui davanzali, sono tipicamente turche; le strade laterali, strette, tortuose e sudice, i grossi alberi e l’abbondanza di verde, e i numerosi minareti ci dicono che siamo nel vero Oriente turco. La più grande delle moschee si presenta bene, esternamente, ed è abbastanza imponente, ma nell'interno è quasi in completa, rovina. E’ stata occupata successivamente da truppe turche in fuga, greche che inseguivano, poi francesi, serbe, italiane, russe di passaggio; anche adesso serve da senderia di tappa ai reparti francesi. Sul muro intorno al cortile i Greci hanno scritto a caratteri cubitali i nomi delle loro vittorie nelle due guerre balcaniche ----Jenidze-Vardar, poiché qui stesso ebbe luogo il 1-2 novembre 1912 la battaglia che decise delle sorti di Salonicco e il cui merito spetta all'allora Diadoco Costantino, Kinds (4 luglio 1913, Doiran (7 luglio), ecc. Presso la moschea vi è il mausoleo, anch’esso, molto rovinato, della famiglia Hadzi Evremos, che ha una storia curiosa. il suo fondatore era un greco convertito all’Islamismo sotto il regno di Osmano (1317) e nominato governatore di Brussa; nella spedizione per la conquista di Salonicco (14-28), quando Jenidze-Vardar era capitale della Macedonia turca, vari membri della famiglia si erano distinti come prodi guerrieri e mussulmani. Per questi meriti il Sultano Murad II li dotò della decima di Jenidze-Vardar in perpetuità, ossia cedette loro il diritto prelevare le tasse su quel distretto. Ciò rappresentava una forte rendita, e gli Hadzi Evreinos divennero una delle famiglie più ricche dell'Impero e, cosa rara in Turchia, conservarono tale ricchezza fino ai nostri giorni. Ma colla conquista greca di Salonicco il Governo ellenico non volle più riconoscere il loro diritto che considerava come una deroga alle prerogative Stato. La discussione si protrasse a lungo in occasione del trattato di pace, e il Governo turco finì per dover cedere, e gli Evremos perdettero le loro vendite. La storia di questa famiglia segna così il principio e la fine del regime turco a Salonicco. Della sua antica importanza, Jenidze ha perso quasi ogni traccia. E’ ancora frequentata, come centro agricolo in una regione che non ha città; la campagna è fertile e abbastanza coltivata, ma malarica. A qualche chilometro dal paese vi è il lago o piuttosto stagno di Jenidze, sulle cui rive paludose crescono rigogliose le canne che servono per fare le stuoie, unica industria locale. Circa 25 km più in là, dopo di aver traversato vari rami del fiume Nisi Voda, si giunge a Vertekop, ai piedi della montagna, dove ritroviamo la ferrovia di Monastir che ha fatto una larga curva, passando per Verria e Niaussa per giungere lui. Presso Vertekop vi sono due grandi ospedali inglesi attendati, dove sono curati i feriti e ammalati dell'esercito serbo. Di qui una strada si stacca a destra e conduce alla, fronte della lI Armata serba. Per molto tempo vi fu a Vertekop un comando di tappa italiano, e tutti gli ufficiali che vi sono passati ricorderanno con gratitudine l’ospitalità del Cap. Guarino e le ottime colazioni sotto la gradita ombra del suo pergolato dopo la traversata della cocente e Polverosa pianura. Con l’aprirsi della strada di Santi Quaranta la tappa di Vertekop perse d'importanza e poi fu soppressa. Dopo Vertekop si entra, in una delle poche regioni realmente ridenti di questa severa e fosca Macedonia. Il fiume Nisi, che cade dalle alture di Vodena sulla pianura per raggiungere il Vardar, forma innumerevoli cascate e cascatelle biancheggianti in mezzo alla folta vegetazione che ricordano un pò Tivoli, e poi, giunto al piano, si suddivide ancora in tanti canali e rigagnoli che irrigano un tratto di campagna che è così reso fertile e verdeggiante. La strada segue uno di questi corsi d’acqua e l’occhio si riposa alla vista di tante belle piante, campi e orti coltivati. Vi sono alcune case in mezzo al verde, del solito tipo turco-macedone, mezzo diroccate, e il convento ortodosso dì Aghia Triada, nel cui recinto si son trovati numerosi frammenti antichi, comprese alcune, belle statue. Di tanto in tanto si incontra qualche posto di tappa custodito da vecchi militari serbi inabili alle fatiche di guerra. Poi la strada comincia a salire su erti pendii e con curve a sesto acuto sino a raggiungere l’orlo della muraglia Vodena. Guardando indietro si gode di una meravigliosa vista pianura del Vardar, che si stende fino al mare verso sud-est e circondato dalle altre parti da montagne brulle e selvagge. Vodena è una graziosa cittadina, che i Greci cercano di ellenizzare, senza, poterle però togliere il carattere semi-slavo semi-turco. Strade strette, fiancheggiate da case pittoresche, metà, in legno e metà, in muratura, colle finestre chiuse dalle musciarabie, tutte un po' sgangherate e fuori di sesto; grandi alberi in mezzo alle vie, e numerosi rigagnoli d'acqua corrente, bazar e caffè all’orientale — il solito insieme macedone con qua e là qualche fabbricato moderno più pretenzioso. Di antichità non si vede traccia, fuorchè qualche pezzo di muro antico, ma è certo che scavando si troverebbero resti almeno del Medio Evo bizantino. In mezzo alla folla orientale variopinta circolano ufficiali e soldati francesi e serbi, e ogni tanto qualche nero senegalese. Non vi è reparto italiano fisso, ma, spesso vi transitano ufficiali. Procedendo oltre, arriviamo a Vladovo, grosso borgo bulgaro, dove vi è il comando di tappa italiano, arredato colla solita simpatica cura che caratterizza tutti i nostri posti dietro Vladovo sorge una collina rivestita, di querce d'alto fusto. Purtroppo pei bisogni militari si son dovuti abbattere molti nobili alberi — questa distruzione degli alberi è una delle tragedie della guerra e non delle minori, specialmente in un paese come la Macedonia dove sono così rari i boschi. Al di là di Vladovo si continua per una bella valle verdeggiante e fresca, fiancheggiata da monti le cui pendici, malgrado gli spietati tagli, sono ancora rivestite di folti boschi d'alto fusto, e macchie. Nella grande foresta di Kindrovo avevamo una zona di sfruttamento per il nostro esercito. È qui che si tagliavano i paletti pei reticolati e la legna da, ardere per i forni e pel riscaldamento. Di materie prime ve n' è in abbondanza, ma ogni tanto vi è un'interruzione della ferrovia e allora non si può trasportare, e si deve ricorrere ad ogni sorta di ripiego per rifornire le truppe dell’indispensabile legname. Il paesaggio diventa ora meno verdeggiante, e dopo poco si sbocca nell'arida conca, di Ostrovo col suo bel lago azzurro in mezzo a monti alti e brulli. Il paese omonimo è grosso, ma miserabile. A poca distanza dalla sponda sorge un isolotto con vecchio minareto abbandonato, unico resto di un paese era sommerso per elevarsi dei livello delle acque del lago. Questo era l’antico paese di Ostrovo che ha dato il nome al lago (ostrovo vuoi dire isola), e dopo la sua, distruzione gli abitanti ne costruirono un altro sulla terraferma. La strada non tocca, il paese, ma attraversa una larga piana, fertile, lambita, dal lago. Poi comincia a, salire di nuovo verso le alture di Gornivevo sulla cresta del Malkanidze. Siamo in una regione di montagne rocciose, senza un albero o una abitazione; ad ogni svolto scorgiamo un lembo del lago di Ostrovo, le cui insenature irregolari si insinuano fra le pieghe dei monti, e poi più lontano lo specchio argenteo del laghetto di Petrsko Gornicevo, al punto culminante del colle, è un villaggio tetro e cupo, di rozze casette in pietra greggia, spazzato dai venti gelidi d'inverno. Qui si svolsero atroci combattimenti fra Serbi e Bulgari nell'estate del 1916 e fu qui che i primi arrestarono P avanzata nemica, che, se si fosse estesa fino al lago, avrebbe avuto aperta la via fino a Vodena e forse a Salonicco. Da Gornicevo la strada scende per una serie di tourniquets nella vasta pianura di Florina che si confonde con quella di Monastir-Prilep. Si passa per Banitza, grosso borgo abbastanza prospero, con molti emigranti ritornati dal Canada; lì presso vi è uno ospedale da campo italiano attendato, bene arredato come al solito. Si lascia a sinistra il bivio per Florina, e si Passa per Vrbeni, pittoresco villaggio che porta ancora le tracce dei combattimenti del 1916, e dei vasti depositi e magazzini militari francesi e italiani di Sakulevo; di qui parte una décauville per Brod, che serve tanto agli Italiani che ai Serbi (1 armata) e a due divisioni francesi. Poco dopo siamo a Hasan Oba, dove vi è autoreparto italiano. Prima vi era solo un distaccamento dell'autoreparto di Salonicco, avvicinandosi la grande offensiva, le parti si invertirono e il comando si trasferì a Hasan Oba. Qui regnava l’ottimo maggiore Anziani, che fece dei 27° un autoreparto modello. Il servizio automobilistico italiano, benchè dotato di mezzi molto inferiori a quelli degli altri Alleati, funzionò sempre a meraviglia. Accanto al misero villaggio bulgaro Hosan Oba erano sorte numerose casette per la mensa, gli uffici e gli alloggi per ufficiali, con alcune stanze decorate in modo originare da due ufficiali che erano nella vita borghese pittori di tendenze futuriste. Vi era, pure una bella officina per le riparazioni. A qualche km da Hasan Oba si passa la frontiera greco-serba, ma senza accorgersene, perchè siamo in tempo di guerra e tutta questa, regione è «zona delle Armate» dove conta solo il comando interalleato. I Serbi però si aggrappavano a questo primo lembo di patria riconquistata, e sebbene la popolazione, civile fosse ancora scarsissima — si era troppo vicini alla, fronte — vi aveva, istituito prefetti, sottoprefetti e sindaci, o persino una commissione agricolo-militare per introdurre miglioramenti scientifici nell'agricoltura, locale. Il primo villaggio serbo è Batch, dove il Principe Reggente Alessandro si era installato per qualche tempo in una scuola. Lì presso era il nostro campo di aviazione con una squadriglia comandata dal capitano Aimone, più volte decorato di medaglie al valore, vero fanatico dell'aeronautica, che assieme agli altri piloti ebbe varie occasioni di distinguersi durante la campagna macedone. Pochi chilometri separano - Batch da Brod sulla Cerna, dove la décauville si scinde in due rami, uno per la fronte della I Armata serba e l’altra per la 35° Divisione italiana. La Cerna che è qui traversata da parecchi ponti militari, è un fiume lento, melmoso e poco profondo; descrive una vasta ansa nella, pianura di Monastir e fra i monti ad ovest del Vardar, entro la quale trovasi tutto il settore italiano, oltre a quello delle due francesi coloniali 16° e 17°. Una bella strada costruita dai nostri soldati conduce a Tepavci, dove per 22 mesi è rimasto il Q. G. nostro. Tepavci è un miserabile villaggetto macedone, a mezza costa su uno dei più brulli degli innominati colli della regione. E’ un gruppo di case basse, primitive, ognuna col suo recinto, costruite di mota, calce e strami, in cui vivono promiscuamente esseri umani, cani, porci e galline. La chiesa ha quale pretesa architettonica e le pareti adorne di rozzi affreschi di stile bizantineggiante; fu poi ridotta a bagno per le truppe. Lì presso era sorto un accampamento di tende che per 6 mesi servì come sede del comando. Ma durante uno dei lunghi periodi di inattività, il comandante interinale del Corpo di spedizione ebbe l’idea di costruire qualche casetta di pietra, giacchè la fronte sembrava, dovesse essere immobile per chissà quanto tempo. Il Generale Mombelli, nuovo comandante, continuò i lavori, che nell’autunno dei 1917 erano terminati. Così un vero villaggio di casette in pietra, con alloggi per gli ufficiali, uffici di comando, stazione T.S.F. ecc in cui si poteva vivere e lavorare un po’ meglio riparati dall’intollerabile canicola come dai rigori dell'inverno. Tutto con un minimo di spesa, essendovi sul posto quasi tutta la materia prima, e la manodopera, militare. In nessun altro comando macedone si era così bene alloggiati e nutriti, e in nessun altro si godeva una più cordiale e simpatica ospitalità di quella del gen. Mombelli che faceva tutte le cose signorilmente, e Tepavci divenne una meta prediletta, per gli ufficiali alleati. Sembrano piccolezze, ma anche queste han contribuito al prestigio italiano in Oriente. Molti furono i visitatori a Tepavci, Italiani ed esteri. Fra primi vi fu la simpatica figura del compianto Senatore Barone Leopoldo Franchetti, venuto in Albania per studiare gli sperimenti agricoli fatti dal nostro corpo di spedizione, e spintosi poi in Macedonia per vedere anche quelle nostre truppe. Mi ricordo la sua indignazione contro il Gen. Sarrail per le chicanes e gli intrighi che egli praticava, soprattutto a danno nostro. Chiunque ha conosciuto il Franchetti conserva viva l’impressione del suo profondo patriottismo e la, sua alta fede nei destini d'Italia. Ricordo pure l’on Federzoni, bella figura di nazionalista battagliero che volle visitare la fronte italiana in Macedonia. Venne anche l’on. Chiesa, che ebbe un lungo colloquio con Venizelos, allora presidente del Governo della Difesa Nazionale, combinatogli dal comandante del presidio italiano Col. Bodrero. Fra gli stranieri, oltre a numerosi generali e ufficiali superiori che venivano continuamente nel nostro Q. G. il Principe Alessandro di Serbia lo visitò più volte; egli era sempre in ottimi rapporti col Generale Mombelli. Alla vigilia dell'offensiva il Principe Alessandro espresse il suo vivo rammarico che l’esercito serbo non dovesse essere a contatto diretto col nostro perchè, come egli diceva, fra, Serbi e Italiani vi era sempre cordialità. Venne pure l’altro Alessandro, Re di Grecia, giovane simpatico fanatico automobilista e buon cavallerizzo, morto poi immaturamente. Da Tepavci si giungeva alla nostra fronte per una strada in parte camionabile, negli ultimi tempi era stata prolungata la decauville fino a breve distanza dalle prime linee.
Gli Italiani: La Fronte
Per farci un'idea generale del nostro settore, cominciamo col salire all'osservatorio del Tridente da Tepavci vi si accede o direttamente a Cavallo, per sentieri di montagna, oppure in automobile per la nuova, strada, costruita in parte dalle nostre truppe e in parte dai Francesi, fino a una piccola formazione sanitaria un poco ai disotto dell'osservatorio stesso, facendo l’ultimo tratto a piedi. Questa strada rappresentava uno sconvolgimento di molte idee preconcette circa i rifornimenti militari. Di solito si riteneva che una strada rotabile non potesse rifornire che una divisione; qui invece avevamo una strada erta, tortuosa e non troppo buona che serviva a rifornire due di visioni francesi e vari reparti della divisione italiana. All’osservatorio erano stati sistemati degli alloggi per il comandante della divisione e tre o quattro ufficiali, che vi restavano spesso per lunghi periodi, per osservare meglio le operazioni. Vi si gode di una vista magnifica. Di fronte a noi sorge la famosa quota 1050 colle altre cime ad est, il Piton Rocheux, il Piton Brulé, la quota 1248, ecc. Più a destra erano le posizioni delle due divisioni francesi (16° e 17° coloniali). In mezzo, fra la quota 1050 e il massiccio su cui Ci trovavamo, era un mare di rocce, di valli, di burroni, in mezzo a Cui si insinuavano le seconde e terze linee, saggiamente ideate ed eseguite dal Generale Mombelli, che riducevano grandemente il pericolo di uno sfondamento. Oltre quota 1050 si estende la vasta pianura di Prilep, optatus alveus dei nostri desideri! tanto che sembrava quando salii la rima volta sull’osservatorio tanto lontano e irraggiungibile. Al di là ancora sorgono altri monti Ancora più alti e più aspri, il Babuna, Baba, onde ci si domandava: se riuscissimo sfondare le linee nemiche sulla terribile quota e arrivare a Prilep, non ci troveremmo innanzi a nuovi ostacoli egualmente formidabili, difesi da opere non meno imponenti? Più ad ovest giace la pianura di Monastir, un tempo tutta coltivata a cereali, legumi e frutta, ora quasi deserta perchè sotto, il tiro nemico. Una chiazza biancastra sotto il monte indica Monastir, e più indietro scorgiamo altre montagne terribili —la quota 1248, la, Tzervena Stena, il Peristeri e tutta la gran muraglia che separa la Macedonia dall'Albania. All’estrema destra verso est si agita un altro oceano in tempesta di monti, picchi e rocce, fino al Vardar, zona occupata dall'esercito serbo. Così tutta la parte occidentale della fronte macedone si spiega dinanzi a noi come una carta topografica. Scendiamo ora a Tepavci per salire di lì alla quota 1050. Vi si giunge per una strada in parte camionabile, negli ultimi tempi era stata prolungata la, décauville Sakulevo-Brod fino quasi alla falda della quota 1050. Il paesaggio è dei più fantastici. Da un mare di sassi sorgono dei cucuzzoli di roccia neri, che ricordano gli sfondi dei quadri dei nostri primitivi rappresentanti gli eremi della Tebaide, e non avrebbe fatto meraviglia vedere uscire da, qualche caverna una di quelle magre figure ascetiche di monaci o dagli anfratti delle roccia dei draghi o dei serpenti mostruosi. Invece si incontrano dei fantaccini italiani scortanti muli carichi, e appaiono nelle vallette degli accampamenti di reparti del treno o formazioni sanitarie, mentre dai ricoveri scavati sottoterra escono degli ufficiali in maniche di camicia che si stanno facendo la barba. L'ultimo tratto di strada è in piano, ed essendo in vista degli osservatori nemici si faceva sempre di galoppo. Tiri sistematici sulle retrovie non si facevano da questo punto, ma le buche prodotte da scoppi di granata che si vedono di tanto in tanto ricordano che qualche volta si spara. In altre partì del nostro settore invece i tiri sulle retrovie sono così persistenti che i rifornimenti si devono fare sempre di notte. Si scende per una, valletta, dove siamo al riparo e si traversa un largo greto di torrente, quasi secco l’estate. Al di la son vari ricoveri nelle rocce perchè le bombe nemiche vi cadono abbastanza spesso. Qui stanno dei reparti d'artiglieria, da montagna e di bombardieri italiani, e d’artiglieria da campagna e da medio calibro francese ma addetti al corpo di spedizione italiano. I nostri pezzi da montagna, e le bombarde non sono qui; i primi sono più in altro e più indietro sulle pendici un poco verso est, nascosti in mezzo alle rocce e le macchie donde possono tirare senza essere reperiti dal nemico. Bombarde sono pure più in alto, ma più avanti a mezza costa sulla quota 1050. Si comincia ora a salire faticosamente sulla famosa, quota che per venti mesi è stata il centro di tutta la vita militare italiana in Macedonia. Tutte le strade conducono alla quota, tutti i pensieri sono diretti ad essa. I piroscafi trasportano centinaia e migliaia di tonnellate di viveri e munizioni per alimentare uomini ed armi sulla, quota; la strada di Santi Quaranta è stata, costruita, con enorme difficoltà, per trasportarvi sugli autocarri i complementi che vanno a sostituire i morti, i feriti, gli ammalati sulla quota. Giungono dall'Italia e dall'estero ogni sorta di strumenti scientifici perfezionati per meglio studiare la quota, un ufficio cartografico è stato creato per la 35° Divisione, e il suo compito principale consiste nel ritrarre la topografia della quota. In mezzo a queste rocce selvagge e più in giù verso la pianura sono stati creati numerosi cimiteri dove dormono il sonno eterno le vittime della quota, e non sono poche. Tutta l’attività del comando italiano è diretta a studiare la quota in tutti i suoi dettagli, gli ufficiali del comando la visitano di giorno e di notte, senza posa, affrontando la morte per conoscerla meglio, gli ufficiali e i soldati: dei reggimenti di fanteria ci vivono sopra e ognuno cerca, di conoscere il proprio settore pietra per pietra, zolla per zolla. Ogni cima, ogni, più piccolo dettaglio, ogni valle, ogni rigagnolo, ogni irregolarità, ha il suo nome di fantasia, datogli da, soldati in base a qualche somiglianza o ricordo «Pane» il «Cappello di Napoleone» la «Graziosa «l'Albero Isolato». E il curioso è che il numero con cui è conosciuta la quota è inesatto; si chiamò quota 1050 per, un errore altimetrico, essendo essa più alta. Ma poichè quella misurazione stata segnata nelle prime carte, essa stata sempre mantenuta. Vista a distanza la quota sembra, un enorme dente, truce e cupo, e infatti é un dente avvelenato che azzanna, e uccide. Pei soldati ha acquistato un carattere chi quasi diabolica malignità. Altre posizioni sul settore il Piton Brulé, il Piton Roebeux non sono meno temibili, ma nessuna esercita un fascino così malefico come la quota 1050. Diamo ora, un breve cenno descrittivo del settore italiano della fronte macedone. L’ansa della Cerna comprende una catena di monti rocciosi, brulli e frastagliati, che sono una Continuazione dei monti di Prilep, e costituiscono la Selechka Planina, innalzantesi qua e là a 1500 m. La Cerna, che proviene dai monti a nord di Monastir, scorre attraverso la pianura verso sud, allargandosi in certi punti in una vasta palude; a sud-est di Monastir fa una conversione verso est ai piedi del Kaimakajalan, lambendo Brod e Skocivir, per poi dirigersi verso nord per una gola stretta fra i monti fino alla sua confluenza, col Vardar. Le pendici della Selechka Planina, alte e precipitose nella parte est dell'ansa, digradano verso ovest e tutta la parte occidentale delle ansa è piana. La pianura, di Monastir-Prilep, oltrechè una delle zone più fertili della Macedonia, costituisce anche uno dei rari valichi attraverso gli erti monti della regione, una vera trouee per cui sono passate innumerevoli orde fin dagli albori della storia. Essa è dominata però dalle alture nell'ansa della Cerna. Il possesso di quelle pendici era quindi indispensabile per dominare il corridoio di Monastir. E poichè esse erano possedute per metà, dagli Alleati e per metà dai nemici, nè uni nè gli altri potevano dirsi padroni della pianura. Se noi le avessimo perdute il nemico avrebbe avuto aperta la strada verso la Grecia; se fossimo riusciti a conquistarle totalmente, tutto le comunicazioni nemiche nella, valle del Vardar sarebbero state minacciate. Tale è il significato della lunga lotta per questi aridi monti. Il punto più basso della cresta nell'ansa è il colle di Makovo; a nord di questo si stende in direzione ovest, un lungo sperone la cui punta culminante è la famosa quota 1050. Qui nell’autunno del 1916 erano giunti i Serbi, e la conquista di essa obbligò il nemico ad evacuare Monastir. Ma i Serbi, esausti dalla lunga e durissima lotta, non poterono mantenervisi, e i Tedesco-Bulgari con un contrattacco la riconquistarono. Ciò rese loro possibile di mantenersi per 22 mesi nella regione di Monastir. Per conservarla, il comando nemico vi pose a guardia le sue migliori truppe e le munì di tutte le più perfezionate difese note all'arte bellica moderna. Le lotte che vi si svolsero lasciarono traccia nei cadaveri di cui era coperta, o solo il restarvi costò innumerevoli vite di soldati italiani, francesi, serbi, russi, bulgari e tedeschi. Che fosse celebre fra i nemici quanto lo era fra i nostri è indicato dal fatto, raccontatomi da un ufficiale inglese, che nel paese bulgaro di Dubnitza la trattoria, principale si chiamava — anche dopo l’armistizio —la «trattoria del colle 1050 della Cerna». La linea nemica, seguiva la cresta dei monti compresi nell’ansa a nord della valle del torrente Moriovo nella Parte est, della quota 1050 e dei grandi pitons a nord del torrente Suha nella parte ovest e quindi per un tratto di pianura fino a un punto a nord di Novak sulla Cerna (ovest). La linea alleata era un poco al disotto della cresta, ma in parecchi punti vicinissima a quella nemica. Lo sviluppo totale della linea era di 25 km circa, di cui la parte occidentale (un po' più della metà) era tenuta dagli Italiani, e quella orientale dai Francesi. A nord del colle eli Makovo sorgeva un grosso masso di roccia detto il Piton Rocheux, dalla cui cima il nemico dominava le linee nostre a destra e sinistra, nonchè le valli del Moriovo e della Suha. Il Piton Rochenx era crivellato di caverne nella viva roccia che nascondevano dei nidi di mitragliatrici e davano riparo alle truppe dal bombardamento delle artiglierie alleate. Gli Italiani occupavano una, serie di roccia irregolari, come denti, fra l’una e l’altra erano le linee protette da sacchi a terra, ma erano dominate dal nemico sul Rocheux, onde non si poteva accedere con relativa sicurezza dall’una all’altra che di notte. Più ad ovest il nemico teneva un'altra posizione dominante, Piton Brulé, il cui fuoco colpiva le linee italiane non esposte a quelle del Rocheux. I nostri fanti in prima linea non avevano qui altro riparo che delle buche poco profonde nella roccia dette “buche serbe” con muriccioli bassi in pietre ammonticchiate e sacchi a terra; erano a circa 30 m dal nemico e 10 m sotto ad essi. Le trincee fra buca e buca erano così scoperte che non vi si poteva, passare che al buio. In nessun altro settore erano così esposti al sole cocente d'estate, alle in temperie d’inverno e tiro nemico. Oltre il Piton Brulé le linee nemiche si allontanavano un po' dalle nostre, risalendo poi alla erta sommità della quota 1050, anch’essa irta di mitragliatrici. Lo posizioni nemiche sulla quota e quelle sul Rocheux si sostenevano a vicenda, onde anche se riuscivamo ad occupare le une eravamo esposti al fuoco infernale delle altre. La q. 1050 vista alto si può assimilare ad una lunga punta di freccia a direzione verso il N. E., con due denti acuminati, e una depressione triangolare fra i due, circa un km, di estensione al punto più largo. Noi occupavamo il dente sud ovest e le depressioni della valle di Meglentzi, la nostra linea principale di resistenza risaliva questo sperone, e alla testata della valle di Meglentzi incontrava la prima linea. Quindi si spingeva fin sotto la cresta, più alta detta “Il Castelletto”. Dal Castelletto il nemico poteva osservare tutta la fronte italiana dal Rocheux a Novak; nonché tutte le vie di approccio, salvo certe vallette nascoste sotto le rocce precipitose dove erano appostate le batterie. Non una colonna di rifornimento, non un camion, non un cavaliere o un fante isolato sfuggiva alla sua osservazione. Per riparare alquanto le truppe che tenevano queste posizioni erano state scavate delle trincee nelle rocce, utilizzando ogni più piccola irregolarità, e costruendo caverne entro la montagna. Ma i bombardamenti nemici spesso concentrati su questa difesa, alle volte si sparavano fino a 1000 colpi in un solo giorno su un brevissimo tratto di fronte, avevano ridotto la collina a un ammasso di pietrisco e sabbia che offriva bea poco riparo. Alla testata della valle di Meglentzi la nostra prima linea passava a zigzag giù nella depressione triangolare che ho descritto. Pur essendo più lontana dal nemico, questa era una, delle peggiori delle nostre posizioni perchè esposta più direttamente al fuoco delle trincee sovrastanti. Qui nessuna circolazione era possibile di giorno lungo la linea, e persino i feriti dovevano essere evacuati di notte, poichè il nemico tirava loro addosso. Anche la trincea di comunicazione colla linea di maggior resistenza era interdetta di giorno, sebbene un intero battaglione dovesse rifornirsi per questa unica via. Lo sperone meridionale della q. 1050 era, tagliato in un punto da un Passo o sella che divideva le rocce della quota vera e propria da tre alture isolaste dette i Mamelons di Lebac, che erano munite di opere difensive italiane ed avevano grande importanza inquanto dominavano la valle di Meglentzi. La prima linea era qui a circa 1 km a nord di esse e poco al di là, delle rovine del villaggio. Sotto il colle vi era un gruppo di che furono ben presto ridotti a scheletri dai continui tiri artiglieria. Sulla cresta dello sperone meridionale erano le trincee nemiche che culminavano nell’osservatorio detto «Punta A», dominante l’intera vallala e le nostre linee fino alla Cerna. Il Q. G. del battaglione che difendeva le posizioni sotto il villaggio di Meglentzi era una caverna scavata dentro il burrone formato da un torrente, in una parete così erta che in alcuni punti vi erano il due piani di buche l’uno sopra l’altro. Meglentzi le nostre linee si dirigevano lungo il burrone, poi presso un torrente formavano un saliente inarcato dove le linee nostre erano vicine a quelle nemiche, ma se ne allontanavano subito dopo. Infine, abbandonata la regione montuosa che qui gradatamente declinava, attraversavano la pianura, paludosa fino alla Cerna gli ultimi 6 km di trincea erano in piano e lontano dalle linee nemiche. Mentre i 9 km di montagna, erano tenuti da tre reggimenti, per questi 6 km di pianura ne bastava uno solo. Oltre le linee vi era un groviglio reticolati. Il centro della difesa nella pianura era il villaggio di Novak ad est di Monastir; a un chilometro e mezzo a nord era la prima linea del nemico 500 m più in là, presso il villaggio di Dobromir. Sulla Cerna era un forticino difeso con molti reticolati e mitragliatrici. La seconda linea più arretrata faceva centro in un tumulo, forse un'antica sepoltura, i cui i nostri avevano scavato una caverna per piazzarvi delle mitragliatrici unica elevazione in questa vasta pianura, era un ottimo osservatorio. Mezzo chilometro più indietro era Novak stesso, una volta un villaggio abbastanza importante, ma ora, del tutto diroccato. Qui nei ruderi delle case era sistemato un posto di comando. Non essendovi colline di sorta, eccetto il tumulo predetto, tutte le trincee erano scavate nel piano e i nostri soldati vivevano sottoterra. Il settore era, più tranquillo degli altri, ma la vita della truppa era resa disagiata d'inverno dalle inondazioni e dall’umidità, e d' estate dalla malaria. Tutta la pianura era stata, un tempo coltivata e produttiva; ma da tre anni era terreno di lotta cruenta; i campi erano abbandonati, i villaggi ammassati di rovine con solo qualche pezzo di muro ancora in piedi. Rovi e sterpi avevano invaso, dovunque, e non si vedeva che qualche rara traccia dell'aratro. Le erbe crescevano rigogliose perchè la terra era fertile, e i nostri soldati la falciavano industriosamente. Di Dotte i cavalleggeri dì Lucca andavano al di là dei reticolati dove l’erba, era più alta, e portavano al loro accampamento grossi fasci di buon foraggio — spesso l’unico di cui i poveri cavalli e muli della 35° Divisione potevano nutrirsi. In queste imprese bellico-agricole vi era di tanto in tanto qualche scambio di fucilate fra pattuglie, ma quasi sempre senza conseguenze. Alla Cerna finiva il settore del nostro Corpo di spedizione, e cominciava quello dei Francesi. Un ponte di legno ben difeso da opere armate di mitragliatrici univa i due settori. Per molto tempo la divisione adiacente alla nostra era la 11° coloniale, coi cui ufficiali i nostri erano in ottimi rapporti di camaraderie. Da qui una strada conduceva a Monastir. Ma, sebbene fosse la via più breve fra quella città e il nostro Q. G., era vietato di percorrerla in automobile o a cavallo perchè battuta dalle artiglierie nemiche. Essendo inutilizzabile era in istato di completo abbandono e piena di buche. Ogni tanto qualche ufficiale o soldato amante di podismo la seguiva per recarsi a Monastir, che sebbene continuamente bombardata aveva, per chi veniva in Macedonia, le attrattive di una città. Gran parte della Popolazione vi era ritornata e i bottegai facevano fior di quattrini coi loro modesti esercizi. Alla fine della guerra circa due terzi delle case erano rovinate e ben poche erano quelle che non Portassero qualche ricordo dei due anni di bombardamento. Saliamo ora verso le prime linee. Camminamenti, trincee, ricoveri, tutto era scavato nella viva roccia, e sarebbe difficile immaginare una posizione più disagiata di questa. Verso la vetta le nostre linee non distano che pochi metri da quelle nemiche, e si vedono attraverso le feritoie gli elmetti dei Bulgari o dei Tedeschi. Qui vi sono sempre stati alcuni battaglioni germanici. Dopo le operazioni dell’autunno 1916 i reparti germanici furono in parte ritirati dalla Macedonia, e il numero dei battaglioni diminuì gradatamente da una ventina a tre o quattro; ma qualcuno di essi rimase sempre sulla quota di fronte a noi... Il comando nemico considerava questo come il punto più delicato di tutto il suo sistema difensivo e ci mise quindi le truppe di cui più si fidava. Una passeggiata per le nostre trincee faceva una gran impressione. Siccome si lavorava principalmente di, notte, chi vi si recava di giorno trovava la grande maggioranza dei soldati addormentati; non vedeva quindi che piedi, poichè i ricoveri davano sui camminamenti e soldati si coricavano colla testa all’indietro e i piedi verso l’esterno. Ogni tanto in qualche spazio più largo, si incontrava un gruppo di soldati che si facevano la barba, si lavavano, giuocavano alle carte, leggevano, scrivevano. Ce n'era sempre qualcuno, soldato o ufficiale che ci accompagnava e faceva, «gli onori di casa»; non si poteva passare per una mensa senza essere invitati a bere qualche bicchiere di ottimo vino e mangiare dei biscotti e persino dei dolci, ma se era l’ora dei pasti, allora si era trattenuti a viva forza dai simpatici e cordiali compagni. È incredibile l’ingegnosità con cui ufficiali o soldati riuscivano sistemarsi in mia situazione addirittura, inverosimile. Aggrappati ad una montagna nuda, la cui cresta era dappertutto occupata, dal nemico, che dominava le vie d' accesso e di rifornimento, che spiava, ogni nostro movimento, con un clima variabilissimo, artico d' inverno e tropicale d’estate quando il sole spietato piomba sulle rocce infocate, la vita in tali circostanze sembrerebbe intollerabile. Eppure i nostri soldati vi rimasero per quasi due anni, affrontando sempre un nemico superiore di numero e di mezzi, oltrechè di posizioni. E ciò senza, contare la grigia monotonia, della vita lassù, variata solo da qualche bombardamento o colpo di mano nostro e del nemico, e più raramente da un attacco in piena, regola, magari con gas asfissianti. Ma i nostri sapevano che quello era uno dei settori Più vitali di tutta la fronte, una delle chiavi dì volta del settore macedone, e che se si cedeva là crollava ogni cosa e l’Armata Alleata di Macedonia rischiava di esser ricacciata, in mare. E vi era poi l’orgoglio di far buona figura accanto agli Alleati di vari eserciti; bisognava assolutamente che il settore italiano tenesse fermo. E sebbene teoricamente la posizione fosse insostenibile fu tenuta per due anni senza vacillare, fino alla vittoria completa. Nella giusta e dovuta ammirazione per i nostri soldati sulla fronte italiana non dimentichiamo quelli che resistettero per due anni sulle inospitali balze macedoni, che vi tennero alto l’onore dell’Italia, di fronte agli altri Alleati e che vi inchiodarono le migliori truppe nemiche di tutta la, fronte orientale. Vi erano dei lunghi periodi di sosta i cui non si combatteva. In certi giorni non si sentiva neanche un colpo. Mai bastava che da una parte si tirasse una fucilata o si gettasse una bomba a mano perchè dall’altra, scoppiasse un uragano di fuoco. Certi visitatori alla nostra fronte erano assai poco ben visti perchè volendo fare i gradassi, si divertivano a sparare qualche colpo. Il nemico rispondeva', e una giornata di riposo si convertiva, in una di vivace scambio di fucilate e di bombardamenti del tutto inutili. Ciò succedeva quando l’inopportuno visitatore se n'era già andato a luoghi più riparati. Quando le truppe italiane nel dicembre 1916 presero possesso di questo settore, esso era, quasi completamente indifeso. I Serbi non ebbero tempo di farvi delle importanti opere di difesa, si erano limitati a scavare delle piccole buche nel terreno o nella roccia. Il Generale Petitti si mise subito a fortificare il settore, e la sua opera fa continuata, completata ed estesa dal Gen. Mombelli. Durante la nostra occupazione furono scavati in tutto più di 100 km di trincee e di camminamenti, profondi fino a due metri, e 500 caverne per ricoveri tagliati nella viva, roccia, e si stesero 120 km di reticolati. Tutto questo vasto lavoro fu fatto dalle truppe «a riposo», perchè, mentre due brigate erano in linea, la terza era impiegata a costruire queste difese. Mentre nei primi tempi si tendeva, come su tutte le altre fronti di guerra, a concentrare il massimo numero di truppe e i maggiori lavori difensivi nelle prime linee, finì per prevalere il concetto opposto di tenere in prima linea solo un velo di truppe, un minimo indispensabile, colle altre forze in riserva, nei ricoveri ben riparati, pronte ad accorrere di rincalzo nei momenti di attacco, e di costruite potenti seconde e terze linee di maggior resistenza. In questo modo si evitava lo stillicidio di continue perdite anche quando non vi erano combattimenti, e allo stesso tempo ci si premuniva contro le conseguenze di un possibile sfondamento delle prime linee, nel qual caso il nemico sarebbe stato obbligato ad attaccare le seconde linee esposte a un fuoco di batterie che potevano regolare esattamente il loro tiro su un terreno a loro notissimo. Fu il Mombelli che ricostruì e rinforzò la seconda linea e costruì ex novo la terza, che era la più potente delle tre. Il nemico non conosceva queste difese dietro le prime linee, e infatti sa una carta di S. M. trovata in possesso di un prigioniero nemico, la prima linea è rappresentata con abbastanza dettaglio, la seconda, è appena accennata e in modo inesatto, e la terza non figura che coll’indicazione «vecchie trincee bulgare». Questo fatto è uno degli indizi che il nemico era molto meno bene informato sulle cose nostre di quel che generalmente si supponeva, Il settore italiano in Macedonia; aveva una fronte di 15 km ridotti poi, in seguito alla diminuzione degli effettivi, a 12. Varie volte il Comando in Capo, specialmente consule Sarrail, volle indurci ad estenderla verso destra, ma tutti e tre i generali che successivamente comandarono il nostro corpo di spedizione si rifiutarono di farlo, non essendovi alcuna ragione per far occupare dalla 35° Divisione un settore sproporzionato alle sue forze, in confronto di quanto non facessero gli altri eserciti alleati, tenendo conto anche del fatto che quel settore era fra i più duri e aveva le comunicazioni più difficili, onde gli spostamenti da un punto all' altro erano quanto mai malagevoli. E infatti il Comando in Capo finì per non insistere. Non fu che nell' estate del 1918 che estendemmo di nuovo la fronte in vista dell'offensiva di settembre. In confronto della fronte italiana, quella di Macedonia era non meno micidiale di quella del Carso o del Piave, ma era sotto alcuni aspetti uno dei settori più disagiati. A differenza da quel che succedeva in Italia, le truppe in Macedonia erano in grandissima Parte precluse dalle licenze, e al momento dell'armistizio vi erano ben 30.000 uomini (su un totale di circa 50.000) che pur avendovi diritto, non avevano potuto usufruirne; fra di essi 6.000 avevano 25 mesi di fronte senza licenza. Quando il gen. Mombelli assunse il comando, 11 mesi dopo l'arrivo del corpo di spedizione, nessuno era stato in licenza dalla Macedonia stessa e molti erano stati alla fronte, da parecchi mesi in Italia prima di passare il mare essere stati a casa. Si riteneva, che dalla Macedonia le licenze fossero impossibili, perchè non conveniva esporre la truppa ai rischi della lunga traversata quando non era, assolutamente indispensabile, mentre il trasporto per la via di San Quaranta in autocarro sembrava troppo complicato e difficile, data la nostra penuria di mezzi di trasporto. Ma, il Gen. Mombelli comprese l’enorme importanza, delle licenze, anche se relativamente pochi uomini ne potessero godere; il solo pensiero di non essere tagliati fuori da ogni speranza di una licenza, aveva un grandissimo e benefico effetto sul morale delle truppe. Egli quindi riuscì a superare le mille difficoltà che incontrava, e organizzò il servizio delle licenze appunto colle auto tradotte via Santi Quaranta. Fu una delle molte sue benemerenze verso la 35° Divisione e che lo resero talmente popolare coi soldati. Altro disagio morale era dato dall'irregolarità del servizio postale; il corriere spesso mancava per settimane intere. Dopo aperta la via di Santi Quaranta le cose migliorarono ma non si ebbe mai quella regolarità che vigeva alla fronte italiana, ma malgrado i disagi morali materiali, il clima malsano, la malaria, lo stillicidio di perdite, e la lunga snervante attesa, ogni volta che c’era da agire i nostri si gettavano all'attacco col più mirabile slancio. Il loro morale si conservò sempre elevato, e non vi fu mai fra i soldati italiani alcun movimento di rivolta o anche di malcontento come vi fu in alcuni reparti francesi, senza parlare naturalmente dei Greci e dei Russi dove gli ammutinamenti furono frequenti. Si era parlato più volte di uno spostamento della nostra fronte verso l’estrema sinistra dell'A.F.O. che era anzi desiderata dal nostro Comando Supremo, allo scopo di avere tutte le truppe italiane nei Balcani schierate senza soluzione di continuità sebbene la 35° sarebbe rimasta, sotto il C. A. A. mentre il XVI Corpo d’Armata era alla dipendenza diretta del comando supremo. Ma il C. A. A. si oppose sempre a tale schieramento perché temeva che trovandosi la 35° a contatto diretto con il XVI corpo d’Armata del Generale Ferrero, questo avrebbe finito per assorbire quella. Esso anzi più volte aveva, chiesto che anche le nostre truppe d'Albania fossero messe alla sua dipendenza per avere una fronte orientale unica. La proposta non fu mai approvata dal nostro Governo, per ragioni politiche inerenti ai nostri interessi in Albania da cui volevano allontanare qualunque ingerenza straniera. Da un altro punto di vista, però forse aver riunito tutte le nostre truppe nei Balcani sotto un corpo solo, anche sotto l’alto Coniando del C.A. A., avrebbe offerto il vantaggio di darci maggiore autorità nelle eventuali decisioni circa i Balcani in genere. La nostra collaborazione nella campagna d' Oriente contava solo per il contributo dato, dalla 35° Divisione perchè sebbene, avessimo in Oriente anche il XVI Corpo d'Annata, questo operava, esclusivamente in Albania e per conto proprio, e non figurava nel bilancio generale delle operazioni. D'altra parte Io spostamento della 35° Divisione presentava, delle difficoltà logistiche e di rifornimento abbastanza, gravi, e non ebbe luogo. Un altro fatto che svalutò la nostra partecipazione campagna balcanica fu di non avere voluto trasformare la nostra divisione in corpo armata. Abbiamo visto come gli effettivi e i servizi della 35° Divisione fossero superiori a quelli di un corpo d' armata; per di più il nostro contingente fu l’unico che mantenesse il numero dei suoi effettivi. Benchè si sapesse quale fosse la forza reale della nostra divisione, il nome di divisione bastò per ridurne l'importanza, e diminuire l'autorità del comandante di fronte a quella, degli altri contingenti comandati da generali aventi il grado di comandante in capo. Ed è da notarsi che la trasformazione in corpo armata era stata riconosciuta necessaria e ordinata nell' agosto 1918, ma contromandata, pochi giorni dopo. Non si comprendono le ragioni di tale opposizione. Lo stesso Gen. Franchet d’Espery desiderava la trasformazione della divisione in corpo d’armata e voleva che fosse dotata di artiglieria propria; telegrafo in tal senso durante offensiva di settembre all’ambasciatore barrette perchè facesse i Passi necessari presso il nostro governo. Forse, la ragione vera era che ne il nostro Comando ne il governo ebbero mai fiducia nella campagna balcanica. La condotta del gen. Sarrail ne è in parte responsabile, e gli effetti di tale sfiducia si fecero sentire anche molto tempo dopo la di lui partenza. Pochi giorni infatti prima della grande offensiva questa sfiducia fu di nuovo espressa esplicitamente, e la fronte macedone dichiarata assolutamente secondaria, onde il Gen. Mombelli non poteva sperare che gli fosse mandato nè un uomo, nè lui cannone, nè un camion di più. Non fu che a campagna ultimata che in Italia, anche nelle alte sfere, si scoprì per così dire, la fronte macedone. Ma qualunque fossero, i motivi per cui fa così trascurata la 35° Divisione — ce ne saranno stati altri e ottimi, che, io ignoro — il fatto rimane e portò a delle conseguenze dannose pel nostro prestigio. Iniziatesi dopo l’armistizio le trattative per la pace, si cominciò subito dagli Interessati a svalutare l’opera dell'Italia nella campagna balcanica, la cui importanza, cominciava ad essere ora apprezzata al suo giusto valore. II Comando, che si stava spostando dalla Macedonia verso Sofia, ricevette allora la richiesta dalla nostra delegazione a Parigi di inviare colla massima urgenza un rapporto riassuntivo che la mettesse in grado di sventare tale svalutazione. Il rapporto fu inviato e avrà i forse giovato. Ma molto di più si sarebbe ottenuto se si fosse accordato al nostro corpo di spedizione un trattamento più adeguato ai suoi bisogni e ai suoi meriti.